G. Berta, all’interno del suo testo (“Le classi nella rivoluzione industriale: problemi e interpretazioni”), pur ritenendo tuttora valida l’interpretazione classica che radica nell’accumulazione di capitale agrario l’origine del processo di industrializzazione, sottolinea però anche l’importanza degli studi che indicano nella relativa povertà dell’investimento agrario una delle spinte che hanno indirizzato il capitale verso il settore industriale.
Il ceto direttivo di fabbrica – conclude G. Berta – è un ceto dinamico, aperto verso il basso; l’imprenditore, prima che un capitalista, deve essere un uomo dotato di buone conoscenze tecniche, capace soprattutto di organizzare il processo produttivo e anche di interpretare le richieste del mercato. Sono questi i requisiti base di molti managers che, nonostante all’inizio fossero solo capi-operai, riuscirono, comunque, ad acquistare sempre maggiori quote di proprietà e quando divennero padroni dell’azienda a dirigerne finalmente lo sviluppo. Berta osserva inoltre che tanto il processo di industrializzazione quanto l’ascesa dei managers furono facilitati dalle condizioni generali dei singoli paesi: ad esempio nel modello inglese ebbero un ruolo primario non solo le particolari condizioni di mobilità della mano d’opera innescate dalla precedente rivoluzione agraria, ma anche i livelli medi di istruzione conseguiti grazie ad un sistema educativo che offriva ai ragazzi provenienti dalle più disparate condizioni sociali gli strumenti indispensabili per gestire i nuovi processi produttivi.