Russia, 1942: la drammatica ritirata dell’ARMIR

Russia, dicembre 1942: sotto la pressione di una massiccia offensiva sovietica, inizia la ritirata dell’ARMIR.

ARMIR: Sigla di Armata italiana in Russia, corpo di spedizione che operò nel 1942-43 nella zona del Don. Subentrata al CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia), costituito nel luglio 1941 al comando del generale G. Messe, e composta da circa 220000 uomini, fu coinvolta nella disfatta di Stalingrado e nella successiva ritirata, contando un numero elevatissimo di perdite.

Nel luglio del 1941, colpito dagli iniziali successi di Hitler sul Fronte Orientale, Mussolini decise di partecipare alla Campagna di Russia. Fu istituito così un primo corpo di spedizione di circa 60.000 uomini, unendo divisioni di Fanteria e di Bersaglieri con una legione di Camicie Nere. Le forze meccanizzate erano tali solo di nome, in quanto non disponevano di veicoli. Nel novembre del 1941 gli Italiani riuscirono comunque a conquistare alcune posizioni.

Nel frattempo, però, arrivò il primo inverno. I nostri soldati non erano equipaggiati per poterlo affrontare in maniera adeguata. I Sovietici ne approfittarono, e diedero vita a una controffensiva che le forze dell’Asse respinsero a fatica. Mussolini decise comunque di raddoppiare la posta. Nell’estate del 1942 inviò nuovi rinforzi: divisioni di Fanteria, divisioni di Alpini e diverse Legioni di Camicie Nere. Nacque così l’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia, un corpo di spedizione forte di circa 220.000 uomini. Questo fu disposto in difesa delle sponde del fiume Don, a protezione delle linee arretrate oltre le quali erano impiegate le forze tedesche che tentavano l’assedio a Stalingrado.

Quando la grande offensiva russa, nel dicembre del 1942, travolse l’armata tedesca, inevitabilmente le linee difese dagli Italiani furono sbaragliate. Ai nostri soldati non rimase che ripiegare. Circa 70.000 vennero imprigionati dai Russi e costretti a lunghe marce sotto la neve, verso i campi di prigionia, mentre altri 25.000 morirono nel corso della ritirata, di freddo, di fame, di stenti, o uccisi dagli agguati continui dei partigiani russi.

Inizialmente, come detto, le forze italiane consistettero in un corpo d’armata assistito da una piccola componente aerea, ma nell’estate del 1942 gli eventi sul Fronte Orientale resero necessario l’invio di forze più consistenti: altri due corpi d’armata confluirono assieme allo CSIR per formare l’8ª Armata o ARMIR, che combatté in Unione Sovietica fino alla sua completa disfatta nel gennaio 1943.

Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR) da luglio 1941 ad aprile 1942:
22º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre dall’estate del 1941 al 4 maggio 1942;
61º Gruppo Autonomo Osservazione Aerea.

8ª Armata o Armata italiana in Russia (ARMIR) da aprile 1942 a 31 gennaio 1943:
21º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre dal 4 maggio 1942 al 21 gennaio 1943;
71º Gruppo Autonomo Osservazione Aerea.

4ª Flottiglia MAS che operò sul Mar Nero e sul Mar d’Azov dal maggio 1942 al settembre 1943.

XIIª Squadriglia MAS che operò sul Lago Ladoga dall’agosto all’ottobre 1942.

Il 16 dicembre del 1942 fu una data tragica per il Regio esercito italiano. La disfatta portò allo smembramento dell’intero ARMIR, che si ‘dissolse’ tra la ritirata dalla Russia verso ovest e le cosiddette “Marce del davai” (“davai, davai” “avanti, avanti”: con quest’ordine le guardie della scorta continuamente incitavano i ritardatari a proseguire), a piedi, su piste ghiacciate, uccisi se non si riusciva a tenere il passo della colonna, verso terribili campi di prigionia.

Si calcola che furono fatti prigionieri oltre 64.000 soldati. Di questi, nel 1945 e nel 1946 ne tornarono all’incirca 10.000. Nel solo campo di Tambov, che ospitava 23.000 prigionieri, da fine 1942 al giugno 1943 rimasero in vita 3.400 soldati; di 7.000 alpini della Julia, ne sopravvissero 1.200.

Quel giorno si scatenò sul Don la controffensiva dell’Armata Rossa (Operazione Piccolo Saturno). Il grande fiume dei cosacchi era ghiacciato, la temperatura insopportabile. Le nostre linee non avevano la forza per resistere, e furono costrette a cedere inesorabilmente. Gli alpini furono sacrificati in retroguardia: l’ordine di tenere le posizioni li condannò alla distruzione. Scrisse un testimone: “Il rumore della battaglia ci arrivava da sud come quello di mille carri su un acciottolato e nella notte di Natale, laggiù, il cielo aveva il colore del sangue”.

Il terribile urto frontale scardinò il fronte Italo-rumeno. Gli Italiani, che non disponevano di mezzi motorizzati come i Tedeschi, rischiarono di essere aggirati in massa, con l’unica prospettiva della Siberia, dalla quale non vi era possibilità alcuna di ritorno. I cosacchi attaccavano a valanga. Le armi dei nostri erano congelate, inchiodate, grippate dal freddo. I soldati si trascinarono sulla neve nella marcia della disperazione. I carri russi, come dei veri e propri cani da caccia, non mollarono un istante la “preda”. Degli alpini rimane ben poco: 6500 i superstiti della Tridentina, 1300 della Cuneense. La Julia fu annientata.

Per Marcello Biaggio, alpino di Colle Umberto (Tv), fu determinante l’aiuto della popolazione civile: “Nel lungo viaggio verso casa ci fu anche chi fu costretto a rubare ai morti stivali e indumenti: i nostri non bastavano a respingere il freddo della steppa. Pativamo così tanto che per sopravvivere alla notte ci rifugiavamo nelle isbe russe dove cercavamo anche di racimolare quanto più cibo possibile. La maggior parte delle famiglie dava quel che poteva, forse perché avevano paura. Fatto sta che anche loro avevano ben poco di cui sfamarsi”. Anche Umberto Battistella, protagonista della spedizione in Russia, racconta delle incursioni dei soldati italiani nelle case russe: “Quando si entrava nelle isbe si chiedeva ‘Khleba! Khleba!’ che significa ‘Pane!’. Ma quei poveretti non ne avevano neanche per loro, figuriamoci per noi”.

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