La seconda fase del colonialismo italiano

LA SECONDA FASE DEL COLONIALISMO ITALIANO

La fine dell’Ottocento, in Italia, si contraddistinse per una una profonda crisi politica e sociale che, avviata dalla caduta di Crispi in seguito alla sconfitta di Adua (momento culminante della Guerra di Abissinia: gli Italiani subirono una pesante sconfitta, che arrestò per molti anni le ambizioni coloniali sul corno d’Africa), aveva visto in rapida successione una buona affermazione delle sinistre nelle elezioni del 1897, ma una dura repressione delle manifestazioni popolari contro il carovita. Le forze politiche di destra, contraddistinte da una potente volontà autoritaria, arrivarono all’ipotesi di esautorare il Parlamento. Le nuove elezioni (giugno 1900) ribadirono tuttavia l’affermazione delle sinistre, e in particolare dei socialisti. Il vero protagonista della nuova stagione politica italiana fu senz’altro Giolitti, presidente del Consiglio (fatta eccezione per due brevi interruzioni) fino al 1914.

Diversi furono i limiti che caratterizzarono la politica giolittiana: da una parte mancò un disegno lineare di trasformazione strutturale del sistema industriale, dall’altra, sul terreno delle riforme e della democratizzazione della vita sociale, fu adottato un atteggiamento che potremmo definire ambiguo. Il fronte imprenditoriale, a partire dal 1910 (anno in cui fu istituita Confindustria), assunse posizioni intransigenti nei confronti delle organizzazioni operaie e dei continui scioperi che caratterizzavano quel periodo, mentre il Partito Socialista appariva ancora fortemente lacerato tra due posizioni estreme e inconciliabili. Lo scontro interno si consumò infine nel 1912, durante il congresso di Reggio Emilia, quando prevalsero nuovamente i rivoluzionari, mentre gli esponenti della destra furono espulsi per aver sostenuto la decisione del governo di muovere guerra alla Libia nell’ottobre del 1911.

Cresceva intanto una retorica e imponente propaganda nazionalista, improntata sul colonialismo, all’interno del Paese, animata in particolare da Enrico Corradini (scrittore e politico, senatore del Regno d’Italia nella XXVI legislatura). Essa lamentava con vigore il ruolo subalterno dell’Italia nello scacchiere internazionale, invitando a una forte politica di espansione coloniale. Nel 1910 venne fondata l’Associazione Nazionalista Italiana (partito politico che ha rappresentato un’espressione politico-organizzativa del nazionalismo italiano, sorta a Firenze nel dicembre 1910), mentre gli atteggiamenti nazionalisti e bellicisti si estesero ben oltre le ristrette cerchie intellettuali in cui erano sorti, conquistando consensi crescenti soprattutto tra le classi medie, le quali in quegli anni avevano visto diminuire il loro potere d’acquisto.

Tale mosaico di posizioni, insieme alla pressioni di gruppi industriali e finanziari (in particolare il cattolico Banco di Roma), spinse Giolitti a optare per un intervento militare in Libia, in una congiuntura internazionale che appariva favorevole. Difatti, dopo la seconda crisi marocchina (crisi di Agadir, determinata nel 1911 dall’opposizione tedesca al tentativo della Francia di instaurare un protettorato proprio sul Marocco), Gran Bretagna e Francia, le quali avevano ormai consolidato i propri domini nel Mediterraneo, lasciarono di fatto “via libera” all’occupazione italiana di determinati territori propri dell’Impero Ottomano, compresa la Libia. Verso di essa si erano progressivamente rivolte le pretese coloniali dell’Italia da quando la Francia aveva esteso il proprio controllo sulla Tunisia nel 1881.

Si pensava ad un’impresa facile, vista la lacerante crisi vissuta dall’Impero che coinvolgeva principalmente i vertici e l’organizzazione dell’esercito, e si era diffusa la credenza che i Libici avrebbero accolto gli Italiani come liberatori. In Italia si creò un’inaspettata alleanza tra nazionalisti e cattolici moderati che, sostenuti dall’apparato clericale, si proiettarono in un’accesa campagna a sostegno dell’intervento armato. Tuttavia, le manovre belliche non furono affatto agevoli, soprattutto per la resistenza dei Turchi e delle popolazioni autoctone. Le truppe italiane repressero con efferata brutalità alcuni tentativi di resistenza, ma non riuscirono comunque a estendere il proprio controllo oltre la fascia costiera. Si procedette comunque alla conquista anche di Rodi e delle isole del Dodecaneso.

La propaganda, abilmente, presentò la conquista della Libia come occasione di sbocchi lavorativi per i numerosi disoccupati. In realtà, a beneficiare delle conquiste furono gli investimenti finanziari delle banche, l’industria pesante, la cantieristica e gli interessi precipui degli armatori, direttamente coinvolti nei movimenti d’affari legati alla costituzione di una colonia.

La conquista della Libia coincide con la seconda fase del colonialismo italiano (la prima va dalla cessione della baia di Assab, sulla costa eritrea, allo Stato Italiano fino alla sconfitta di Adua; la terza fase del colonialismo coincide con la politica coloniale del fascismo), la quale tuttavia venne chiusa rapidamente dallo scoppio della Grande Guerra, quando il controllo della stessa fu fortemente ridimensionato dalla resistenza locale. In occasione dell’impresa libica si rafforzarono notevolmente la correnti nazionaliste che avevano fatto propri i temi e i linguaggi imperialisti. Il consenso dell’opinione pubblica fu piuttosto ampio. In questa fase specifica, la determinazione della classe politica e militare nel perseguire l’obiettivo, nonostante i limiti sopra descritti, fu decisamente maggiore che in passato.

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