I Feziali, supremi difensori della dignità di Roma

La diplomazia, all’epoca degli antichi Romani, era indubbiamente diversa da quella che caratterizza la nostra epoca, ma esisteva ed era anche molto efficiente. Veniva considerata come una sorta di strumento parallelo all’azione militare, ma mai alternativo. Serviva, più che per trattare o negoziare, per spiegare e illustrare ai popoli da sottomettere le condizioni che avrebbero caratterizzato l’inevitabile integrazione alla quale sarebbero stati sottoposti. Roma sottometteva i popoli e li assimilava, concedeva loro la cittadinanza così da poter rendere il territorio conquistato parte integrante dell’Impero.

Compito precipuo della diplomazia, e quindi dei Legati (gli ambasciatori dell’epoca), era quello di esprimere il pensiero del Senato, il punto di vista dell’Imperatore. I Legati non disponevano di molto spazio negoziale, dovevano bensì spiegare e convincere, e proprio per questa ragione erano sovente eccellenti oratori che svolgevano la propria missione con una certa teatralità protocollare. Le delegazioni diplomatiche erano temporanee, non esista il ruolo di ambasciatore permanente. Il loro era un ruolo eminentemente politico, ragione per la quale non esistevano diplomatici “di carriera”; venivano selezionati tra pretori, consoli e senatori, in base alla loro esperienza e capacità oratoria. Una volta portata a termine la missione assegnatagli, tornavano alle loro occupazioni precedenti.

I Legati avevano la possibilità di osservare direttamente le reazioni, il comportamento dei regni e dei popoli conquistati. I loro discorsi erano accompagnati da una significativa gestualità, componente essenziale per arrivare ad ottenere il massimo impatto possibile sull’uditorio.

Da Tito Livio, storico romano autore della “Ab Urbe condita”, apprendiamo dell’esistenza di una particolare corporazione di sacerdoti e saggi, i Feziali, i quali fungevano da garanti e interpreti di quello che oggi, con qualche forzatura del caso, potremmo definire Diritto Internazionale (ius fetiale). Essi conferivano sacralità alle relazioni internazionali e ai patti diplomatici conclusi. Il concorso dei Feziali era richiesto ogni qualvolta fosse necessario dichiarare guerra, concludere un’alleanza o un accordo. In caso di crisi diplomatica internazionale, erano incaricati di accertare da che parte stessero il torto e la provocazione, tenendo sempre conto delle indicazioni del Senato e dei Legati al rientro dalle loro missioni ad hoc. Se venivano riscontrati comportamenti scorretti da parte di cittadini Romani, i Feziali, supremi difensori della dignità di Roma, esigevano la consegna dei colpevoli al nemico (“deeditio”), altrimenti procedevano alla solenne dichiarazione di guerra (“clarigatio”).

Il rituale, accuratamente descritto, prevedeva una formula orale, attraverso la quale il Feziale si rivolgeva al re di Roma, chiedendogli dapprima il permesso di trattare con il popolo antagonista e in seguito di raccogliere l’erba sacra, colta in cima al Campidoglio. Ottenuta la risposta del monarca, il sacerdote si faceva nominare messaggero e rappresentante di Roma in territorio nemico, chiedendo l’estensione dei suoi privilegi sacrali anche per gli eventuali aiutanti. Se i patti non venivano rispettati, compito dei Feziali era quello di chiedere riparazione immediata della violazione e, se non ottenevano soddisfazione, dichiarare guerra per conto di Roma.

Il collegio sacerdotale dei Feziali, composto da 20 membri eletti per cooptazione, era presieduto, con rotazione annuale, da un Magister Fetialum e disponeva di una sorta di portavoce, il Pater Patratus Populi Romani, l’oratore ufficiale, incaricato di indirizzare la dichiarazione formale di guerra.

“La loro origine viene fatta risalire al primo periodo monarchico, a Numa Pompilio (754 a.c. – 673 a.c.), forse a Tullo Ostilio ( … – 641 a.c.) o ad Anco Marzio (675 a.c. – 616 a.c.), ma si sa che un analogo Collegio era attivo anche ad Alba Longa (città del Latium vetus, a capo della confederazione dei popoli latini)”.

Secondo Livio (I, 32, 1 – 5), fu il re Numa Pompilio a porre il rituale sacro nelle dichiarazioni di guerra, prendendo esempio da quello del popolo degli Equicoli, una frazione della stirpe degli Equi, cosicché Roma avesse anche in questo l’approvazione degli Dei: “Ut tamen, quoniam Numa in pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequicolis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur.”

Quella dell’Urbe, quindi, era una diplomazia che precedeva, affiancava o seguiva l’azione militare, tesa a fornire un contributo significativo alla politica d’integrazione perseguita da Roma, specialmente nel tardo periodo repubblicano e durante l’Impero, quando sul mondo regnava la pax romana. Una pace che fondava le proprie ragioni sulla potenza militare delle legioni, ma nondimeno su un’amministrazione evoluta ed efficiente, sull’applicazione di norme giuridiche chiare ed esemplari, sul senso della res publica, sul concetto d’integrazione e su una diplomazia di grande peso.

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