Libertà economiche del ‘700 italiano

L’economia, nuova scienza del Settecento, conquistò a partire dalla metà del secolo uno spazio crescente nel dibattito culturale italiano, sia dal punto di vista della pura riflessione teorica, sia come analisi economica concreta o proposta riformatrice. L’interesse era rafforzato da un lato dall’avvio di un lungo ciclo di sviluppo che prese il suo avvio dagli anni Quaranta, dall’altro dalle impellenti esigenze finanziarie degli Stati, che richiedevano una modernizzazione tanto delle tecniche e dei rapporti di produzione, quanto delle politiche economiche e dell’amministrazione fiscale.

In sintonia con le teorie fisiocratiche e con il modello inglese di agricoltura capitalistica, gli illuministi italiani propugnavano l’ampliamento della libertà di iniziativa individuale che, grazie ai meccanismi spontanei della concorrenza, proprio mentre persegue razionalmente il proprio interesse privato concorre ad aumentare la ricchezza comune. Contro le concezioni mercantilistiche, lo Stato non deve dunque intervenire direttamente nella sfera dei rapporti economici, ma solo garantire regole e condizioni favorevoli, rimuovendo quegli ostacoli (dazi e gabelle, vincoli corporativi e monopoli, sistemi di tassazione iniqui e irrazionali) che intralciano il libero gioco degli interessi e della scaltrezza imprenditoriale. Secondo Pietro Verri, il legislatore illuminato non deve mai forzare, ma soltanto invitare e guidare, poiché l’arte di scrivere buone leggi è quella guidata dalla volontà di far coincidere l’interesse privato col pubblico, e nella politica giova più il lasciar fare che il fare. Questa sostanziale fiducia nella spontanea autoregolazione della vita economica venne condivisa anche da Beccaria, il quale sosteneva che l’interesse comune non è che il risultato degli interessi particolari, e questi interessi particolari non si oppongono al comune interesse se non allorché vi siano cattive leggi che li rendano tra loro contraddittori.

Assieme al gruppo di competenti funzionari lombardi e stranieri guidati dal potente ministro principe Kaunitz, Verri e Beccaria parteciparono in prima persona alle riforme economiche in quanto membri del Superiore consiglio di economia, istituito nel 1765, mentre un ruolo decisionale ancora più diretto venne svolto in Toscana da Pompeo Neri e Angelo Tavanti. Fu progressivamente smantellato il sistema di vincoli giuridici che intralciava la libera compravendita delle terre e l’investimento di capitali in agricoltura: la manomorta ecclesiastica e il fedecommesso nobiliare che vincolavano rispettivamente alla Chiesa o a una famiglia aristocratica il bene immobile, rendendolo inalienabile; il maggiorascato che imponeva la trasmissione ereditaria del fondo al solo primogenito, impedendone quindi ogni frazionamento; la consuetudine degli usi collettivi, incompatibili con la piena disponibilità della terra come proprietà privata. Vennero frazionati i demani comunali e immessi sul mercato. In sintonia con l’acceso dibattito italiano ed europeo sulla libertà di commercio dei grani, furono ridotti o addirittura eliminati i dazi interni e le barriere doganali verso l’estero. Fra il 1773 e il 1787, furono abolite in Lombardia le corporazioni.

La razionalizzazione del sistema fiscale si raggiunse da un lato unificando e restituendo allo Stato, in Lombardia (1770) e Toscana (1768), la riscossione delle imposte prima appaltata ai privati, dall’altro eliminando o riducendo le immunità fiscali del clero e della nobiltà. Il catasto lombardo, terminato nel 1757, fu un momento decisivo di questo processo, in quanto fissò una misura tributaria oggettiva legata all’estensione e alle caratteristiche dei terreni, annullando il precedente groviglio di privilegi e abusi. Ne derivò un forte incentivo ad aumentare il rendimento delle proprietà, investendo capitali o mettendo a coltura i fondi censiti come terre incolte.

Il catasto contribuì alla crescita dell’economia lombarda nella seconda metà del secolo e al consolidarsi di quell’agricoltura capitalistica moderna che a Napoli auspicavano invano Genovesi e Palmieri. Qui l’inefficienza della burocrazia, il boicottaggio delle autorità locali, ma soprattutto la durissima resistenza dei baroni rallentarono il censimento delle terre impedirono l’abolizione delle immunità fiscali. Contro questi ostacoli si batté, accanitamente ma inutilmente, in Sicilia Domenico Caracciolo, viceré dal 1781 al 1785. Anch’egli, come altri riformatori meridionali, non trovò l’alleanza di alcun soggetto sociale nella propria battaglia antifeudale.

Un momento interessante di questa battaglia furono e numerose e dettagliate inchieste sulle condizioni delle campagne meridionali nelle varie regioni del Regno. Grimaldi, Longano, Galanti e Melchiorre Delfico denunciarono l’assenteismo e i privilegi dei latifondisti, lo stato di abbandono delle terre della Chiesa, l’estrema miseria dei contadini vessati dai tributi e dai soprusi dei baroni, l’impotenza dello Stato e delle leggi. Le denunce e gli appelli alle riforme divennero più decisi in occasione dei 200.000 morti provocati dalla grave carestia del 1763-64 e del terremoto che nel 1783 colpì la Calabria e Messina.

Per indebolire il potere baronale, favorire la crescita economica e mitigare il pauperismo, Genovesi e molti suoi allievi proposero di estendere il numero dei piccoli e medi proprietari, attraverso la colonizzazione dei terreni incolti, il frazionamento del demanio pubblico e l’abolizione di fedecommessi, maggiorascato e manomorta. La polemica antifeudale si tinse spesso di accenti umanitari, come nel caso di Filangieri, il quale sostenne con forza di come il reale barometro della prosperità di uno Stato fosse il benessere della maggior parte delle famiglie e l’agio comune della maggior parte dei cittadini, e non la condizione dei grandi proprietari. Tuttavia, da un lato i provvedimenti di riforma erano insufficienti e disorganici, dall’altro producevano effetti opposti a quelli sperati: favorivano lo sviluppo e consentivano trasferimenti di proprietà consistenti, ma a vantaggio dei grandi proprietari che del resto beneficiavano dell’allargamento del mercato e del conseguente rialzo dei prezzi dei prodotti agricoli.

Anche in Toscana, la politica delle “allivellazioni” (concessioni in affitto a lunghissimo termine) degli anni Settanta, sostenuta soprattutto da Gianni, intendeva promuovere la piccola proprietà e aveva una componente umanitaria filo-contadina. Ma anche qui il progetto fallì, sia per l’opposizione di altri funzionari e dei poteri locali, sia perché erano quasi sempre i grandi proprietari ad aggiudicarsi le terre del demanio pubblico messe all’asta o quelle liberate dai vincoli ecclesiastici. D’altra parte, la grande estensione dei rapporti di mezzadria impedì la formazione di un’agricoltura capitalistica moderna paragonabile a quella lombarda.

Concludo qui questa breve ma puntuale rassegna degli sviluppi economici che videro protagonista la nostra penisola nel Settecento.

Precedente La bottega del caffè Successivo Stato e Chiesa