La bottega del caffè

Potrebbe risultare interessante un approfondimento relativo alla grandiosa fortuna vissuta dai locali pubblici settecenteschi, con particolare menzione alla importante diffusione del caffè, che comincia a rivestire una sempre maggiore importanza nella vita della popolazione italiana.

A Milano, come detto, tra il 1764 e il 1766 esce un giornale che accoglie gli scritti dell’Illuminismo cittadino (Il Caffè). Già nel 1750 Carlo Goldoni con la commedia La bottega del caffè aveva trasportato sul palcoscenico un locale che stava diventando familiare ai veneziani. Ma in questa seconda metà del secolo “caffè” si aprono a Livorno, Milano, Padova; mentre Firenze, con il “Caffè dei ritti” si fa antesignana del moderno bar, locale in cui la tazzina di caffè veniva consumata rigorosamente in piedi. Da cosa nasce dunque la fortuna dei locali pubblici in questo secolo? E in particolar modo del caffè, che è tutt’ora in gara con la cioccolata come bevanda simbolo del secolo?

Il caffè viene citato in Italia per la prima volta in un testo del 1582: proveniente dal mondo arabo e da Costantinopoli, lo si vende agli albori come erba medicinale. I viaggiatori raccontano che in Oriente lo si consuma in botteghe, all’interno delle quali si può sedere, e che anzi è malvisto sia per motivi d’ordine pubblico (in quanto spesso le discussioni attorno a un caffè degeneravano in risse) e soprattutto per motivi religiosi: per restare a sedere al caffè non ci si reca a pregare alla moschea. Nel 1676 il Senato veneziano, su modello di quanto già avviene a Napoli, incarica i Savi della Mercanzia di porre una tassa sulla vendita del caffè, segno che il consumo è comunque significativo. Comunque Venezia si riempie di locali in cui si può sedere per gustare la bevanda: in piazza San Marco si inaugura il “Venezia Trionfante”, che poi si chiamerà “Florian”, arrivando con questo nome e con la struttura e gli arredi settecenteschi quasi infatti ai giorni nostri. Proprio Goldoni scrive nelle sue Memorie: “Nell’estate la piazza San Marco e le sue vicinanze sono frequentate la notte al pari del giorno; ed i caffè sono pieni sempre di persone allegre, d’uomini e di donne d’ogni condizione”.

Negli anni della Rivoluzione francese, nei caffè attorno a San Giorgio si ritrovano i Greci e i Dalmati veneziani e il ragazzo Ugo Foscolo, avvolto in un tabarro (mantello a ruota da uomo) rattoppato ed esibito quasi divisa del suo ostentato giacobinismo. La moda del caffè si afferma in Francia e si diffonde rapidamente anche a Londra. Alla fine del XVIII secolo nella sola Parigi sono attivi ben 700 esercizi dove si beve caffè e si discute di politica e di cultura. Si legge infatti alla voce “caffè” nell’Encyclopédie: “Queste sono le precauzioni: temperare con lo zucchero la sua amarezza che potrebbe renderlo sgradevole e aggiungervi talvolta latte o panna per spegnere gli zolfi…; il vantaggio, in rapporto al vino è di non lasciare nella bocca alcun odore sgradevole e di non eccitare alcuna turba nello spirito, al contrario questa bevanda sembra rallegrare lo spirito, disporlo al lavoro, ricrearlo, liberarlo dai problemi”.

Bevanda orientale, il caffè si legava a quella fiammata di interesse, sviluppatasi dalla metà del XVII secolo, per l’Oriente e il mondo arabo, che ritroviamo nelle ambientazioni ‘turchesche’ di Voltaire o delle Lettere persiane di Montesquieu, così come negli erotismi avvolti in veli e turbanti che percorrono diversi romanzi illuministi per approdare alle avventure a Candia del giovanissimo Casanova. I turchi, che avevano terrorizzato l’Europa tra la battaglia di Lepanto del 1571 e l’assedio di Vienna (1683), erano tuttavia affascinanti, quasi metafora di mondi lontani in cui si fondevano il mito del buon selvaggio e le fantasie di esotiche raffinatezze: si traducevano ora Le mille e una notte e gli Inglesi ampliavano l’orizzonte ‘turchesco’ fino a quello ‘indiano’. Nell’immaginazione curiosa del Settecento, il tutto si mescola in un’atmosfera colma di effluvi di caffè, bevanda in grado di donare quella lucidità mentale essenziale all’esercizio della ragione. La bottega del caffè e la stessa bevanda vengono insomma a coincidere con la curiosità intellettuale, la vivacità, la discussione, anche quella più aperta e spregiudicata.

Scrive Pietro Verri nel 1764, sulla rivista a noi nota “Il Caffè”: “Un Greco originario di Citera, isoletta riposta tra la Morea e la Candia, mal soffrendo l’avvilimento e la schiavitù in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistato quella Contrada … son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette li Scali di Levante… e molto si trattenne in Mocka, dove cambiò parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia e da Livorno sen venne in Milano dove son già tre mesi che aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caffè che merita il nome veramente di Caffè: Caffè vero verissimo di Levante e profumato dal legno d’Aloe che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plumbeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole”.

E nel 1825 il francese Anthelme Brillat-Savarin nella Fisiologia del gusto o meditazioni di gastronomia trascendente osserverà: “Voltaire e Buffon bevevano molto caffè: forse a quest’uso dovevano il primo la meravigliosa chiarezza che si osservava nelle sue opere, il secondo l’armonia entusiastica dello stile. E’ evidente che molte pagine dei suoi trattati sono state scritte in uno stato di esaltazione cerebrale straordinaria”.

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