Stato e Chiesa

Di grande rilevanza in tutta l’Europa cattolica, la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa si presentava in Italia, per evidenti e deducibili ragioni storiche, come un problema cruciale per qualsiasi prospettiva di trasformazione politica, civile e culturale.

Già prima del movimento illuministico, da una parte la tradizione del giurisdizionalismo napoletano, che culminò nella battaglia culturale di Giannone, condannava con forza i privilegi e le immunità che sottraevano i membri del clero e i beni ecclesiastici alla piena giurisdizione dello Stato; d’altra parte, l’opera di Muratori prospettava un cattolicesimo illuminato, attento ai problemi sociale e alle libertà civili, che sapesse rinunciare alle ingerenze nella sfera politica.

Alcuni obiettivi del giurisdizionalismo furono raggiunti almeno parzialmente attraverso una serie di concordati con la Chiesa, favoriti dal pontificato del colto e tollerante Benedetto XIV (1740-58). Il concordato stipulato nel 1741 con il Regno di Napoli, per esempio, aboliva l’immunità fiscale dei beni ecclesiastici, limitava il diritto d’asilo e l’immunità personale dei membri del clero. Ma anche in questi anni non mancarono motivi e momenti di scontro: quando in Toscana lo Stato avocò a sé il potere di censura dei libri (1743), con la sola eccezione delle pubblicazioni di contenuto religioso, la Chiesa reagì minacciando di scomunica librai, editori e lettori.
I conflitti si accentuarono a partire dagli anni Sessanta, sia per l’atteggiamento di chiusura reazionaria dei pontefici successivi, sia per il generale processo di laicizzazione che investita a ritmo sempre più accelerato la cultura e la società. Su questo fronte, le idee degli illuministi trovarono un’alleanza spontanea con le esigenze dei sovrani di modernizzare lo Stato, rafforzarne il potere, risanarne le finanze e sottrarre alla Chiesa l’egemonia sull’istruzione. Nel nuovo quadro della cultura illuministica, la polemica anti-ecclesiastica oltrepassava di molto l’ambito tradizionale del giurisdizionalismo, per divenire vera e propria battaglia ideologica e politica di ampio respiro e teoricamente agguerrita, che rifletteva analoghi dibattiti francesi ed europei. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1768), del toscano Cosimo Amidei, proponeva una moderna concezione della separazione tra Stato e Chiesa, condivisa dal trentino Carlantonio Pilati che attribuiva agli interessi mondani e al potere politico della Chiesa la decadenza civile della penisola. La sua opera invitava alla tolleranza religiosa e condannava i magistrati dell’Inquisizione come persecutori del genere umano.

Diversi altri autori si scagliarono contro l’Inquisizione con particolare veemenza. Del resto a Milano ancora nel 1775 si ripeté il macabro rituale del supplizio pubblico per reati contro la religione: l’ex francescano Carlo Sala, accusato di atti sacrileghi e di propaganda anti-religiosa, subì la tortura, il taglio della mano e l’impiccagione.

L’alleanza tra illuministi e sovrani si manifestò anche nella campagna, di dimensione europea, contro i gesuiti. Una fitta pubblicistica, che comprendeva traduzioni di testi di Diderot, d’Alambert e Voltaire, attaccò l’ordine per le sue ingerenze politiche, la morale accomodante, l’influenza ideologica, l’egemonia sulla cultura e sull’istruzione. Uno Stato dopo l’altro decretò l’espulsione e incamerò i beni della Compagni di Gesù, che nel 1773 venne sciolta con un decreto pontificio. Negli anni Settanta e Ottanta furono inoltre chiusi molti conventi e monasteri del clero regolare, accusato di sottrarre risorse allo sviluppo economico e di non svolgere attività socialmente utili. Molte delle attività assistenziali, soprattutto nella Lombardia di Giuseppe II, passarono dalla Chiesa allo Stato che affermò la propria centralità anche in questo ambito, come in quello dell’istruzione in cui tentò di occupare lo spazio lasciato dai gesuiti.

In tutti gli Stati italiani, compreso il Regno di Napoli che sugli altri fronti di riforma appare più incerto, la presenza e il potere della Chiesa vennero complessivamente e progressivamente indeboliti. La riduzione della manomorte, la confisca dei beni degli ordini religiosi e l’abolizione dell’immunità fiscale rispondevano alle esigenze di risanamento finanziario e di sviluppo economico, mentre l’autorità dello Stato veniva affermata attraverso l’eliminazione dei tribunali ecclesiastici e del diritto d’asilo, che sottraevano alla giurisdizione civile i membri del clero, come anche alcuni luoghi sacri. Mentre subiva gli attacchi convergenti dei sovrani e degli intellettuali, favoriti anche dalla diffusione della massoneria, la Chiesa doveva fare i conti con istanze di rinnovamento che attraversavano il mondo cattolico italiano ed europeo. In particolare, le correnti gianseniste e il cattolicesimo illuminato austriaco avanzavano richieste di tolleranza, di semplificazione dei riti e dei dogmi, di decentramento dell’organizzazione ecclesiastica, di rinuncia ai privilegi economici e giuridici.

Cattolici illuminati erano Giuseppe II e Pietro Leopoldo, che tentarono più volte di coniugare le esigenze dello Stato e del rinnovamento della società civile con quelle di una riforma religiosa ed ecclesiastica guidata dal potere politico. In Toscana il granduca cercò un’alleanza con il movimento giansenista che faceva capo al vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci. Tuttavia, le resistenze di gran parte dei vescovi e della religiosità popolare convinsero infine Pietro Leopoldo ad abbandonare l’appoggio aperto ai giansenisti e i progetti di intervento sul terreno dell’organizzazione ecclesiastica e delle forme di culto.
Invece Giuseppe II, in sintonia con analoghi provvedimenti nei domini ereditari degli Asburgo, volle perseguire in Lombardia un vasto disegno riformatore che andava ben oltre la separazione tra Stato e Chiesa, contrapponendo anzi a Roma una Chiesa nazionale che avrebbe dovuto divenire un’articolazione dello Stato assoluto e, in quanto tale, collaborare attivamente nel promuovere la pubblica felicità. La politica ecclesiastica di Giuseppe II contribuì quindi all’accentramento del potere e al controllo dello Stato sui vari ambiti della vita sociale. I metodi autoritari del sovrano, che a differenza del fratello Pietro Leopoldo non lasciava alcuna autonomia alla classe dirigente e ai poteri locali, gli alienarono il consenso dell’opinione pubblica e, in ambito religioso, si scontrarono con la sensibilità e le consuetudini popolari. Le riforme asburgiche in campo ecclesiastico erano così radicali da indurre papa Pio VI, nel 1782, a recarsi personalmente a Vienna per tentare, inutilmente, di fermarle o quantomeno mitigarle. In Lombardia furono rese più sobrie le forme pubbliche del culto (processioni e celebrazioni) e ridotte le festività religiose per non distogliere la popolazione dal lavoro quotidiano. Furono chiusi i conventi e confiscate le proprietà di molti ordini regolari, mentre le risorse e i membri rimasti venivano indirizzati verso attività socialmente utili di assistenza o insegnamento, sotto il controllo dello Stato. Nel 1787, vennero soppressi i tribunali ecclesiastici e istituiti seminari statali che si sostituirono a quelli vescovili. Ai nuovi parroci fu assegnato il compito di formare il popolo non solo alla pietà cristiana ma anche ai doveri civili, di diffondere la conoscenza delle leggi e delle tecniche lavorative.

Giuseppe II sancì la natura in primo luogo civile del matrimonio, ammettendo l’unione tra persone di fede diversa e, in casi gravi, il divorzio per i non cattolici. Un tributo alla battaglia illuministica per la tolleranza furono infine i provvedimenti del 1781, che riconoscevano libertà di culto alle confessioni non cattoliche e abolivano le discriminazioni che impedivano agli ebrei l’accesso ad alcune professioni e alle carriere pubbliche.

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