Il Contratto sociale di Rousseau

Jean-Jacques Rousseau si pose in aperta frattura con il proprio tempo e con la sua filosofia, in quanto visse in un’epoca che attribuiva al progresso tecnico-scientifico e intellettuale il merito di aver diradato le nebbie della superstizione e il compito di guidare la riforma della società, mentre lui tende a rovesciare questa immagine: l’epoca presente è per lui il regno della falsità, in essa la verità delle cose è nascosta, imprendibile. Arriva addirittura ad affermare che le scienze, le lettere e le arti non siano affatto mezzi di illuminazione, ma di occultamento dell’ingiustizia (il tutto viene descritto nel Discorso sulle scienze e le arti, scritto per partecipare a un concorso bandito nell’ottobre 1749 dall’Accademia di Digione. L’Accademia chiese se il rinascimento delle scienze e delle arti avesse contribuito a migliorare i costumi, Rousseau rispose che le anime si erano corrotte a misura che le scienze e le arti erano progredite verso la perfezione).

Il centro di questa critica, che rimane uno dei fili conduttori di tutto il pensiero del filosofo, è nella coppia antinomica apparenza-realtà: una società dominata dall’apparenza, in cui essere e apparire si sono scissi, e anzi si contrappongono, è una società opaca, non trasparente, in cui la comunicazione fra gli uomini è distorta o impossibile e ogni relazione è coperta da un velo uniforme e perfido di cortesia: tale è il frutto perverso della civiltà. Questa visione della civiltà come ciò che corrompe la natura umana rimase la costante alla base di tutta la riflessione di Rousseau. Si scaglierà apertamente contro la disuguaglianza economica, lo sfruttamento, l’ingiustizia sociale, il dispotismo politico, i veri mali della società. Occorre dimostrare che tutti questi vizi non appartengono tanto all’uomo, quanto all’uomo mal governato: secondo il ginevrino, infatti, la disuguaglianza non esiste per natura, ma è un prodotto del progresso ed è legittimata dalle leggi. Essa dunque, pur ammessa dal diritto positivo, è contraria al diritto naturale, poiché è manifestamente contro la legge di natura che un pugno d’uomini viva nel superfluo mentre la moltitudine affamata manchi del necessario. La dimostrazione di questa tesi implica un confronto filosofico con la grande tradizione del giusnaturalismo moderno, nella quale Rousseau stesso si muove. L’errore metodologico dei giusnaturalisti e di Hobbes consiste, secondo il filosofo, nell’aver proiettato nella loro concezione dell’uomo naturale le caratteristiche dell’uomo civilizzato (-Hanno trasportato nello stato di natura idee prese nella società. Parlavano dell’uomo selvaggio e dipingevano l’uomo civile-).
A quest’uomo di natura concepito come una sorta di duplicazione dell’uomo civilizzato, Rousseau contrappone l’idea di una radicale diversità tra queste due figure: l’uomo attuale è un prodotto della storia e un’immensa distanza, tanto temporale quanto qualitativa, lo separa dall’uomo originario. Bisogna dunque necessariamente liberarsi dal pregiudizio per cui l’uomo attuale sia il modello dal quale partire, come se la storia dell’uomo dovesse coincidere con quella dell’uomo razionale. Invece, per tracciare la vera storia dell’uomo occorre fissare lo sguardo direttamente entro l’anima umana, entro se stessi, e operare con uno scatto dell’immaginazione, facendosi guidare da quelle tracce che la natura offre numerose a chi sappia coglierle. Questa storia non potrà che fondarsi su congetture, in quanto non esistono fonti e testimonianze dirette sulle quali costruirla: si tratterà di ragionamenti assolutamente ipotetici e condizionali. Dunque il concetto di stato di natura va inteso non come l’indicazione di un dato storico, ma come un’ipotesi teorica, utile a mostrare lo scarto esistente tra uomo naturale e uomo artificiale.

L’uomo naturale di Rousseau è un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri ma, nell’insieme, organizzato più vantaggiosamente di tutti, che vive disseminato fra gli altri animali cibandosi dei frutti che la terra spontaneamente produce. I suoi bisogni sono modesti, le sue passioni elementari. Vivendo in questa relazione immediata e spontanea con la natura, quest’uomo non ha riflessione, progettualità, immaginazione: non è in grado di pensare se stesso oltre l’arco di una giornata, dunque non può nemmeno temere la morte. Rousseau rifiuta di assoggettare il suo uomo naturale a una valutazione di tipo morale: isolato, disperso, l’uomo naturale non è né buono né cattivo, in quanto tali situazioni presuppongono l’esistenza di una vita di relazione. Gli unici principi che si possono attribuire all’uomo naturale in quest’ottica sono quegli stessi, anteriori alla ragione, che è possibile scorgere in ogni anima umana: l’amore di sé, ovvero la tendenza alla propria conservazione, e la pietà, anch’essa anteriore a ogni riflessione, che ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile, e principalmente i nostri simili.

In tale condizione l’uomo è rimasto per un tempo incomparabilmente lungo. Un tempo statico, privo di ogni dinamismo. E allora, come e perché questo quadro si è messo in movimento, portando l’uomo ad abbandonare lo stato di natura e a diventare quello che è?
Rousseau attribuisce all’uomo naturale una duplice differenza rispetto agli animali: in primo luogo, la sua qualità di agente libero, cioè la concreta possibilità di poter esercitare una volontà e una scelta; in secondo luogo, la facoltà di perfezionarsi. Mentre l’animale, come individuo e specie, è praticamente sin dall’inizio ciò che sempre sarà, nell’uomo esiste la possibilità di sviluppare le proprie facoltà, di mutare, di avere una storia. L’uomo naturale non ha storia, non ha tempo; l’uomo artificiale è invece un prodotto storico. La perfettibilità rivela, una volta in atto, una tragica ambivalenza: in essa si congiungono indissolubilmente il progresso e la corruzione, l’enorme sviluppo delle potenzialità umane e la rottura definitiva e irreversibile dell’equilibrio originario, dell’unità naturale.

Rousseau descrive difatti il processo di civilizzazione nei termini di una reale crescita, a tratti straordinaria, delle capacità tecniche e intellettuali dell’uomo, cui corrisponde un progressivo deterioramento delle relazioni sociali, nonché delle condizioni morali e spirituali. I momenti costitutivi di questo passaggio si rifanno, da un lato, alla scoperta degli strumenti di trasformazione della natura, alla nascita dell’agricoltura e della metallurgia, la divisione del lavoro, l’aumento della disponibilità di beni, tutti fenomeni causa ed effetto insieme di un grandioso sviluppo della razionalità; dall’altro, la continua formazione di nuovi bisogni che reclamano soddisfazione, la nascita della competizione e dell’invidia sociale, la trasformazione dell’amor di sé in amor proprio, ovvero in una sorta di egoistico culto del proprio interesse e della propria immagine sociale. Ed è proprio in questo processo che sorge la disuguaglianza: nello stato di natura, infatti, si danno solo modesti gradi di disuguaglianza fisica tra individuo e individuo, resi ancor più insignificanti da un contesto di relazioni privo di interdipendenze sociali vere e proprie, e da un’economia di pura sussistenza. Invece, con lo sviluppo della produzione e dell’economia e con l’istituirsi della proprietà privata della terra, la divaricazione fra ricchi e poveri tende ad allargarsi sempre di più. Dunque, la disuguaglianza non appartiene all’uomo come essere naturale, ma all’uomo come essere storico.
Ed è solo a questo punto che l’usurpazione e la sopraffazione generano quello stato di conflitto generalizzato che Hobbes ha invece fatto risalire alla natura stessa dell’uomo. Solo a questo punto si rende necessaria la stipulazione di un contratto istitutivo della società civile e delle leggi, per porre fine alle contese e sancire giuridicamente il diritto alla proprietà. Ma è un patto che vede protagonisti i ricchi e che altro non è se non la legalizzazione del sopruso e dell’arbitrio. Riscontriamo qui tutta la distanza ideologica fra la concezione proposta da Rousseau e quella giusnaturalista; quest’ultima, muovendo da una concezione dell’uomo naturale come essere morale razionale, titolare di diritti inalienabili, poteva pensare la società fondata sul contratto come strumento per il pieno esercizio di tali diritti e il diritto positivo come prolungamento di quello naturale. Per Rousseau, invece, posto che l’uomo naturale non è né sociale né morale, il contratto è un momento istitutivo, ex novo, dell’uomo sociale. Ma se il contratto è iniquo, come precedentemente descritto dal filosofo, non può che produrre una socializzazione malvagia: lungi dal garantire l’esercizio della libertà naturale, esso ne va a decretare la piena soppressione. Il Discorso termina infatti con un’apocalittica descrizione del futuro prossimo di una società preda del dispotismo, cui dovrà succedere un terremoto rivoluzionario destinato a riprodurre un nuovo stato di natura.

IL CONTRATTO SOCIALE
Il Rousseau del Contrat può definirsi veramente inventore. Certo, si ispira ai suoi predecessori, dal Machiavelli a Montesquieu. Certo, ha profondamente subito l’influenza del suo atavismo ginevrino e calvinista, ma questi diversi elementi si vanno a mescolare nel cervello potente e complesso dell’autore, nella sua fierezza plebea, costantemente ferita al contatto della società aristocratica fondata sulla diseguaglianza. Il risultato del lavoro di una vita è questa monumentale opera, difficile a leggersi, Du Contrat social, così diversa da L’Esprit des Lois. In essa Rousseau è inferiore a Montesquieu quanto ad apertura intellettuale, a libertà di spirito, ad acume politico; gli è tuttavia superiore per la coerenza del ragionamento, l’unità della costituzione; gli è pari per la bellezza e la fermezza dello stile: stile oratorio e ritmato, meno ricercato, ma probabilmente più sostenuto, sempre grave, spesso maestoso, talvolta ardente come il cuore stesso di Rousseau.
La reale novità? Quelle libertà e uguaglianza, la cui esistenza è tradizionalmente postulata nello stato di natura, Rousseau pretende di ritrovarle nello stato di società, ma trasformate, denaturate. La prima, capitale invenzione di Rousseau ha per asse la concezione stessa del sovrano, della sovranità e della legge, che l’autore fa derivare dal contratto sociale, e che sostiene i primi due libri, su quattro, dell’opera.

L’uomo di Rousseau, come essere sociale e storico, vive in un’incolmabile distanza dalla sua origine naturale. E tuttavia, l’ambivalenza del progresso è tale per cui, come detto, nella socialità egli perde la sua innocenza originaria, ma contemporaneamente acquista il perfezionamento delle sue facoltà intellettuali e sociali. L’uomo civile è scisso, oppresso ed oppressore, ma tuttavia estremamente più capace, duttile e complesso rispetto all’uomo originario. La fondamentale bontà della natura umana costituisce quell’elemento che porta ad una ricomposizione della frattura, che fornisce la via di una rigenerazione dell’uomo malato. In ciò, l’ottimismo antropologico accompagna il pessimismo storico del filosofo. Non si tratta però di tornare alla natura, bensì di indicare in che modo, attraverso la politica, sia possibile la creazione di una società di un uomo nuovi. Il Contratto sociale intende dunque fornire il modello di una società politica legittima, un compito non assolto dai teorici che hanno preceduto Rousseau (secondo il suo pensiero, naturalmente).

Rousseau è condotto, in tal senso, ad una distinzione radicale tra il sovrano ed il governo; distinzione che, sotto la cui prospettiva in cui egli la presenta, gli è assolutamente peculiare. Seconda invenzione, decisiva per il successivo sviluppo del Diritto pubblico. Essa costituisce l’oggetto essenziale dei due ultimi libri ed implica una nuova classificazione delle forme di governo, così come una profonda sfiducia nei riguardi del governo, intaccato da un vizio di fondo. L’opera termina con il celebre capitolo sulla religione civile.

Il contratto come patto di associazione:
Nessun individuo è titolare per natura di autorità su un altro individuo. Rousseau respinge come illegittima l’autorità politica fondata sul diritto divino, o paterno, sulla legge del più forte, sulla conquista o sulla schiavitù. Il diritto si fonda sulla convenzione, la legittimità dell’autorità politica richiede il consenso espresso nel patto. Rousseau si muove quindi all’interno della tradizione teorica del contrattualismo, pur introducendo elementi assolutamente innovativi al suo interno. A ben guardare, in effetti, il contrattualismo affidava la fondazione della società politica a un duplice atto: la decisione degli individui di costituirsi in società e la loro decisione di assoggettarsi al sovrano rinunziando, totalmente (Hobbes) o in parte (Locke), alla propria libertà e ai diritti originari. Rousseau ipotizza invece una teoria secondo la quale il patto è di ciascun individuo con se stesso, in quando la cessione della libertà di cui ogni individuo è padrone all’interno dello stato di natura avviene in favore della comunità, che altro non è che l’insieme, il corpo sociale degli individui che hanno deciso di associarsi. Si tratta di un patto di associazione, non di sottomissione, in quanto ciascuno dei membri, cedendo alla comunità la propria sovranità, si ritrova in realtà sovrano di se stesso. L’atto costitutivo, che presuppone una trasformazione morale e qualitativa, deve dunque avvenire sul piano di un’uguaglianza assoluta: solo in questo modo non esisterà alcun rapporto di dipendenza fra gli individui, ma si creerà solo la dipendenza di ciascuno dal corpo politico, vale a dire da se stesso.

Il sovrano:
Secondo Rousseau, l’obbligo sociale non potrebbe essere fondato legittimamente sulla forza. Il solo fondamento legittimo dell’obbligazione risiede nella convenzione stabilita tra tutti i membri del corpo che si tratta di costituire in società, ed in cui ognuno contratta con se stesso, non legandosi, quindi, che alla propria volontà. Tutto deriva dal libero impegno di colui che si obbliga. Il patto sociale non può essere legittimo se non è derivato da un consenso che si esige unanime. Ognuno di noi mette in comune la sua persona ed ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale (non intesa come la semplice somma delle volontà particolari di ciascun individuo, ma come la volontà dei cittadini in quanto corpo comune; la sua differenza dalle volontà particolari è qualitativa, non quantitativa, ed il suo fine è il bene pubblico, l’interesse collettivo). Ciò significa che ogni associato si aliena totalmente e senza riserve, con tutti i suoi diritti, alla comunità. Così la condizione è uguale per tutto: ognuno si impegna verso tutti, ognuno acquista su chiunque altro esattamente lo stesso diritto che egli cede su di sé. Quindi, ogni membro del corpo politico è contemporaneamente cittadino e suddito. Cittadino in quanto partecipa all’attività del corpo politico (che, quando è attivo, è chiamato sovrano, quando è passivo, Stato). Suddito, in quanto obbedisce alle leggi votate da questo stesso corpo politico, questo sovrano di cui è membro.

Il tutto è coronato dal concetto relativo alla volontà generale che, come detto, non è assolutamente un’addizione, pura e semplice, di volontà particolari. Volontà generale non è unicamente volontà di tutti o della maggioranza, in quanto implica un elemento di moralità.
Ora, il popolo come corpo, il sovrano, non potrebbe volere che l’interesse generale, mentre ognuno dei suoi membri, essendo contemporaneamente, in seguito al contratto, uomo individuale e uomo sociale, può avere due tipi di volontà. Come uomo individuale, è tentato istintivamente di seguire, conformemente all’istinto naturale, egoista, il suo interesse particolare. Ma l’uomo sociale in lui, il cittadino, invece ricerca e vuole l’interesse generale. Ed è proprio in tal senso che Rousseau introduce il concetto di libertà, che è quella facoltà individuale di far predominare sulla propria volontà particolare la propria volontà generale, che annulla l’amore di sé a vantaggio dell’amore del gruppo. In questo modo obbedire al sovrano, quindi al popolo costituitosi come corpo, è veramente essere liberi.
Insomma, esigere la sottomissione della minoranza alle leggi votate dalla maggioranza, a cui per ipotesi la minoranza non ha mai acconsentito, è realizzare la libertà, e non violarla. Ciò perché la votazione di una proposta di legge non ha per scopo di approvare o respingere tale proposta, ma di dire se è conforme o meno alla volontà generale, che sarà nota soltanto dopo il voto. Ciò che altera la libertà non è la dipendenza dalle cose, essendo una sottomissione alla necessità fisica propria di ogni essere umano, ma la dipendenza dai singoli individui. Grazie alla legge, e soltanto alla legge, la dipendenza dagli uomini può tornare ad essere dipendenza dalle cose; l’uomo può ritrovare contemporaneamente libertà, moralità e virtù, cioè l’equivalente della uguaglianza naturale. In effetti, come è noto, la clausola fondamentale del patto sociale è la stessa per tutti. Tutti i cittadini si impegnano alle stesse condizioni e devono quindi poter godere tutti dei medesimi diritti. In conseguenza, il sovrano non può fare su un cittadino maggior pressione che su un altro. Lungi dal distruggere l’uguaglianza naturale, il patto fondamentale sostituisce, al contrario, una eguaglianza morale e legittima alla diseguaglianza fisica che la natura aveva potuto mettere tra gli uomini, e, mentre potevano essere diseguali in forza o in intelligenza, essi divengono tutti eguali per convenzione e di diritto. Per quello che concerne i beni privati dei cittadini residenti entro un determinato territorio, lo Stato deve necessariamente assicurare loro il possesso legittimo, l’autentica proprietà.
Tirando le somme, questo passaggio dallo stato di natura allo stato civile ha prodotto nell’uomo un notevole cambiamento, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto e dando alle sue azioni la moralità che mancava loro in precedenza. Ed è soltanto allora che l’uomo, abituato fino a quel momento a pensare esclusivamente a se stesso, si vede obbligato ad agire in base ad altri principi, e a consultare la sua ragione prima di ascoltare le sue inclinazioni. Sebbene si privi, in questo stato, di diversi vantaggi che possiede naturalmente, ne guadagna di così grandi, le sue facoltà si sviluppano, le sue idee si allargano, i suoi sentimenti si nobilitano.

La sovranità:
I caratteri della sovranità logicamente derivano dall’origine contrattuale. Il sovrano, costituito dal patto sociale, è il popolo come corpo nell’atto di emanare la volontà generale, di cui la legge è l’espressione. La sovranità, o potere del corpo politico su tutti i suoi membri, si confonde con la volontà generale, ed i suoi caratteri sono gli stessi di questa volontà: inalienabile, indivisibile, infallibile, assoluta.
Inalienabile. Il potere può essere ceduto, trasmesso. La volontà no. L’insieme dei cittadini, dall’istante in cui avesse ceduto la propria volontà, cesserebbe di essere un popolo. E, per la medesima ragione per cui la sovranità non può essere alienata, non può essere rappresentata.
Indivisibile. Per la stessa ragione per cui è inalienabile, la volontà o è generale o non lo è; è quella del corpo popolare o semplicemente di una sua parte, e la volontà di una parte non è che una volontà particolare. Dividere la sovranità è ucciderla.
Infallibile. La volontà generale non può sbagliare; è sempre giusta e mira sempre all’utilità pubblica. Il corpo del popolo vuole sempre e necessariamente il bene di tutti e di ciascuno. Essendo il sovrano formato esclusivamente dagli individui che lo compongono, non ha, né può avere, un interesse contrario al loro. Inoltre è necessario che la volontà sia veramente, autenticamente generale, senza alcuna infiltrazione di volontà particolari.
Assoluto. Il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutti i suoi membri. Si rivela necessaria allo Stato una forza universale e coattiva per muovere e disporre ogni parte nella maniera più conveniente al tutto.
Assoluta, infallibile, indivisibile, inalienabile – a cui si può aggiungere, logicamente: sacra e inviolabile.

La legge:
Nello specifico, Rousseau la intende come la reale espressione della volontà generale. Ai suoi occhi è qualcosa di veramente sacro; egli ne ha un rispetto religioso. Soltanto la legge garantisce l’esistenza della giustizia e della libertà. Essa sola ha il permesso di assoggettare gli individui per renderli liberi, di incatenare la loro volontà con il loro consenso. Viene ancora descritta e considerata come la più sublime di tutte le istituzioni umane. In tale ottica, l’oggetto delle leggi è sempre generale, intendendo che la legge considera i sudditi come corpo e le azioni in astratto, mai un uomo come individuo, né un’azione particolare. Così la legge può anche stabilire che ci saranno dei privilegi, ma non ne può conferire nominativamente ad alcuno; in una parola, ogni funzione che si riferisca ad un oggetto individuale non riguarda assolutamente il potere legislativo. Dal momento che esclusivamente il sovrano, che è il corpo del popolo, possiede i requisiti per fare le leggi, questo non possono logicamente essere ingiuste. Il sovrano è ciascuno di noi, e nessuno è ingiusto verso se stesso. Nessun governante potrebbe essere al di sopra delle leggi, perché ogni governante è un delegato del sovrano. Essendo sottomessi alle leggi, si è liberi, perché esse non sono che il registro delle nostre volontà.
Tuttavia, una domanda sorge spontanea: è a una moltitudine cieca, priva di senso critico, che sarà affidato un compito così serio e delicato come quello di fare le leggi?
La volontà generale è sempre giusta, ma il giudizio che la guida non è sempre illuminato. Di qui parte l’appello di Rousseau al Legislatore, all’individuo unico, all’essere straordinario, ispirato e quasi divino, per dare ad un popolo il suo sistema di legislazione, le sue leggi essenziali, fondamentali (probabilmente fa riferimento a Calvino, il cittadino di Ginevra Rousseau). Essere straordinario, questo legislatore, per il suo genio come per il suo ruolo. Il legislatore non è affatto il sovrano. Non comanda gli uomini. Non comanda che alle leggi. Costituisce lo Stato, ma non fa parte della costituzione dello Stato. A queste leggi che lui redige non può dare forza esecutiva, soltanto il popolo come corpo potrebbe. Ogni legge, che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla, non è una legge.

Il governo:
Come visto, Rousseau, nonostante volesse porre la legge al di sopra dell’uomo, è obbligato a ricorrere, per istituire le leggi fondamentali dello Stato, ad un uomo; un uomo straordinario, ispirato, ma pur sempre un uomo. Ecco quindi che, dall’altro capo della catena della legislazione, Rousseau ritrova la stessa impossibilità di fare a meno degli uomini particolari e delle azioni particolari. Il tutto viene risolto dal filoso attraverso una distinzione radicale: quella tra il sovrano, ovvero il corpo del popolo che vota le leggi, ed il governo, quel gruppo di uomini particolari che le eseguono. Il governo non è titolare di alcuna sovranità, non ha potere di legiferare. Non è che il ministro del popolo sovrano, un corpo intermedio tra il popolo in quanto suddito e il popolo in quanto sovrano, incaricato della esecuzione delle leggi e della conservazione della libertà. Il governo non è istituito da un contratto, ma da una legge. Il sovrano vuole, è la volontà generale che determina l’atto generale. Il governo agisce; esegue, tramite atti particolari, l’atto generale. I depositari del potere esecutivo non sono affatto i padroni del popolo, ma i suoi ufficiali; esso può istituirli e destituirli secondo propria volontà e necessità.

Il deposito precedentemente menzionato può essere affidato a tutto o alla gran parte del popolo (democrazia), ad un numero limitato (aristocrazia), ad un magistrato unico, da cui tutti gli altri derivano il loro potere (monarchia o governo reale). Questa è la classificazione dei governi legittimi, secondo Rousseau; in apparenza essa riproduce la divisione classica, ma in realtà è radicalmente diversa. Diversa perché Rousseau distingue sovrano e governo, subordinando a questa distinzione la legittimità del potere. Considera legittimo ogni governo, nel senso stretto di potere esecutivo, che non pretenda di sconfinare nel campo del sovrano, ma che si limiti ad esserne il ministro, il commesso, l’esecutore fedele della sua volontà generale. Le forme legittime di governo allora si classificano unicamente in base al numero di membri che costituiscono il corpo intermedio incaricato di eseguire le leggi.
Così che democrazia designa la forma di governo in cui il corpo del popolo non si limita a votare le leggi, ma decide anche le misure particolari necessarie alla loro esecuzione. Il potere esecutivo è legato strettamente al legislativo. Confusione di poteri, governo diretto integrale, in cui la maggioranza fa tutto, gli atti particolari come gli atti generali. Cattivo governo, dichiara Rousseau. Cattivo perché le cose che devono essere distinte non lo sono. Sovrano e governo sono la stessa persona pubblica, il che non va. Non è concepibile una situazione istituzionale entro la quale chi fa le leggi le esegua, né che il corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle questioni generali per volgerla ad oggetti particolari.
Aristocrazia, come detto, è il governo affidato ad un ristretto numero. Può essere sia naturale, che elettiva, che ereditaria. L’ereditaria è la peggior forma di governo, l’elettiva la migliore. Rimane, quest’ultimo, l’ordine maggiormente auspicabile ed il più naturale, quando i più saggi governano la moltitudine, quando si è sicuri che la governeranno a suo vantaggio e non nel proprio. Questo sistema, senza esigere tante virtù quante quello democratico, ne esige altre che gli sono caratteristiche, come la moderazione nei ricchi ad esempio. Tuttavia, l’interesse di corpo del governo rischia di essere troppo accentuato a spese della volontà generale.
Monarchia. Il Principe, in questo caso, non è un corpo di individui logicamente, ma un uomo reale; unità morale e unità fisica coincidono. Serrata qui è la critica. Il fine di di una monarchia non è la felicità pubblica, e la forza stessa dell’amministrazione volge continuamente a danno dello stato. I re vogliono essere assoluti, il loro interesse personale è in primo luogo che il popolo sia debole; tutto concorre a privare di giustizia e di ragione un uomo educato a comandare agli altri.

Tuttavia, per quanto buono possa essere, il governo rimane contaminato da un vizio che è inerente alla sua stessa essenza. Questo è un corpo intermedio tra il sovrano e il suddito. Un corpo, ovvero un ristretto gruppo di uomini all’interno del grande corpo politico, una piccola società nella grande. Un corpo che, come ogni altro corpo, come ogni società parziale, ha naturalmente la tendenza ad accrescere la propria forza e la propria presenza, a spese della grande società, finché qualcosa non lo arresta. Sconfinare nel campo della sovranità rimane una sorta di costante ineliminabile: questo è il vizio essenziale del governo; inevitabile, come la morte stessa. Rousseau insiste: i migliori governi sono insidiati da questo vizio. Pensiamo solo a mantenerla in vita per quanto è possibile, dotandola della Costituzione che opponga gli ostacoli più forti al pericolo denunciato – anarchia o tirannide. E, dal momento che il principio della vita politica risiede nell’autorità sovrana o potere legislativo, è mantenendo l’autorità sovrana che si manterrà lo Stato. Mantenere l’autorità sovrana significa essenzialmente preservare la volontà generale contro le volontà particolari che, non potendo distruggerla (essendo essa indistruttibile), vorrebbero quantomeno subordinarla e prevalere su di essa. A questo riguardo, Rousseau ci rende partecipi dell’esistenza di mezzi normali – assemblee frequenti di tutti i cittadini, dal momento che nell’istante in cui si apre l’assemblea, ogni potere del governo cessa, il potere esecutivo è sospeso, perché là dove si trova il rappresentato non esiste più il rappresentante – e di mezzi eccezionali – possono essere soltanto i più grandi pericoli a controbilanciare quello di alterare l’ordine pubblico, e non si deve, quindi, sospendere il sacro potere delle leggi se non quando si tratta della salvezza della patria; in questi casi, rari e palesi, si provvede alla salute pubblica mediante un atto particolare che ne devolve la salvaguardia al più degno, si nomina un capo supremo che faccia tacere tutte le leggi e sospenda, temporaneamente, l’autorità sovrana -.

La religione:
Rousseau afferma che mai fu fondato uno Stato in cui la religione non servisse di base. Distinse tre tipi di religione: la religione dell’uomo, quella del cittadino e, infine, un terzo tipo, più bizzarro, ed a valutarli dal punto di vista politico.
Il primo tipo, religione dell’uomo, è il cristianesimo, quello del Vangelo. Religione senza templi, senza altari, senza riti, limitata al culto esclusivamente interiore del Dio supremo ed ai doveri eterni della morale. L’autore ne tesse l’elogio in termini lirici: religione santa, sublime, per cui gli uomini, figli dello stesso Dio, si riconoscono tutti fratelli, e la società che li unisce non si dissolve nemmeno con la morte; gli rimprovera tuttavia di non presentare alcuna utilità per il corpo politico, in quanto essa non lega il cuore dei cittadini allo Stato. Non soltanto questa religione dell’uomo non lega i cittadini allo Stato, ma li distacca da esso come da ogni altra cosa terrena, diventando quindi addirittura nociva ad una salda costituzione sociale.
La religione del cittadino è quella della Città antica. Circoscritta ad un solo paese, gli dà i suoi dei, i suoi protettori particolari e tutelari; ha i suoi dogmi, i suoi riti, il suo culto esterno prescritto dalle leggi: fatta eccezione per l’unica nazione che la professa, tutto per lei è infedele, straniero, barbaro. Rousseau la chiama diritto divino civile o positivo. La loda per tutta la maggior forza che apporta allo Stato, riunendo culto divino e amore delle leggi. Le rimprovera tuttavia di essere fondata sulla menzogna e sull’errore, di essere esclusiva e intollerante, di condurre ogni popolo al massacro di chiunque non ammetta i suoi dei.
Il terzo tipo, più bizzarro, include soprattutto il cattolicesimo, tanto odiato dal protestante Rousseau. Dando agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie, questo terzo tipo di religione li sottomette a doveri contraddittori ed impedisce loro di poter essere contemporaneamente devoti e cittadini. La chiama religione del prete. Ne risulta una sorta di diritto misto e non sociale che non ha nome.

Sul tema, Rousseau conclude: Allo Stato importa certamente che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri; ma i dogmi di questa religione non interessano né lo Stato né i suoi membri, se non nella misura in cui riguardano la morale ed i doveri che chi la professa è tenuto ad assolvere nei confronti degli altri. Ognuno può avere, per il resto, quelle opinioni che preferisce. C’è dunque una professione di fede puramente civile, di cui spetta al sovrano fissare gli articoli, non precisamente come dogmi religiosi, ma come sentimenti di socievolezza, senza cui è impossibile essere buoni cittadini, né sudditi fedeli. Senza obbligare nessuno a crederli, può bandire dallo Stato chiunque non li creda; può bandirlo, non come empio, ma come asociale, come incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di sacrificare, se necessario, la sua vita al proprio dovere. E se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente questi stessi dogmi, agisce come se non ci credesse, che sia punito con la morte: ha commesso il massimo delitto, ha mentito davanti alla legge. I dogmi della religione civile devono essere semplici, in piccolo numero, enunciati con precisione, senza spiegazioni né commenti. La esistenza della Divinità, potente, intelligente, benefica, previdente e provvida, la vita futura, la felicità dei giusti, il castigo dei cattivi, la santità del contratto sociale e delle leggi: ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi, li limito ad uno solo: l’intolleranza. Essa fa parte dei culti che abbiamo escluso.

Il sogno politico di Rousseau, dunque, man mano ha preso forma. Sogno individualista inizialmente, ma che finisce in un sogno comunitario e statalista; sogno al tempo stesso patriottico ed egualitario, da cui sgorga, contro gli abusi ed il dispotismo del Potere concreto, come contro i capricci dell’egoismo individuale, un appello appassionato alla ragione, alla giustizia, alla moralità, alla Virtù (virtù che comporta rinuncia a se stessi, purificazione di se stessi per amore della patria.
Rousseau ha creduto possibile la realizzazione di questo sogno? Sappiamo che non giudicava attuabile quello che lui chiamava governo democratico; ma, in mancanza di questa forma di governo, che egli riserva a un popolo di dei, il funzionamento di ogni governo da lui giudicato legittimo non solleva forse insormontabili obiezioni pratiche? Come poter riunire frequentemente, in un grande Stato, il corpo popolare per rafforzare il sovrano contro la continua pressione dell’esecutivo? Come, in un grande Stato, poter fare a meno di rappresentanti per il potere legislativo? Queste obiezioni non sarebbero mai potute sfuggire al buon senso di Rousseau, il quale afferma che rimane impossibile al sovrano l’esercizio dei suoi diritti se la città non è molto piccola. Egli in fondo pensa che lo Stato dovrebbe limitarsi tutt’al più ad una sola città, lasciando alle piccole città la possibilità di confederarsi per potere resistere di fronte ai grandi Stati.

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Un commento su “Il Contratto sociale di Rousseau

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