Lo Spirito delle Leggi di Montesquieu

Ogni legge ha una sua ragione, perché ogni legge è relativa ad un elemento della realtà fisica, morale o sociale; ogni legge suppone un rapporto. Una catena di rapporti, un’organizzazione di rapporti, un sistema di rapporti (positivi), ecco lo spirito delle leggi. Lasciamo la parola a Montesquieu: ci dirà che questo spirito consiste nei diversi rapporti che le leggi possono avere con cose diverse. Con cose innumerevoli, rapporti innumerevoli.
Accanto a Voltaire, ma in netto dissenso con lui sulla questione politica, l’altro grande protagonista della prima generazione dell’illuminismo francese fu Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu. Fervente ammiratore del sistema politico inglese, dedicò tutta la sua attività, per non dire la sua stessa vita, dal brillante esordio delle Lettere persiane (1721) al capolavoro, lo Spirito delle leggi (1748), allo studio delle condizioni che rendono possibile il concreto esercizio della libertà politica, al punto da venire annoverato fra i fondatori del liberalismo europeo.

Lettere persiane: opera tanto unica quanto innovativa. In questa è possibile rintracciare l’atteggiamento mentale che guida Montesquieu nella sua analisi sociale e che ispirerà in seguito le ponderose riflessioni dell’opera maggiore. Fondendo il romanzo epistolare e la letteratura di viaggio, Montesquieu inverte l’osservatore e l’osservato: a viaggiare è il ricco persiano Usbek con il suo giovane accompagnatore Rica; gli europei sono l’esotico che desta stupore. L’artificio filosofico-letterario di osservatori provenienti da un altro pianeta culturale va a relativizzare le culture, rendendo il punto di vista effettivamente oggettivo.
Travestito in panni persiani, Montesquieu mette a nudo i vizi e le contraddizioni del sistema politico e sociale del suo tempo, l’irrazionalità di istituzioni, usanze, costumi sociali, credenze religiose; può irridere la futile vanità dell’aristocrazia, il servilismo dei cortigiani, degli adulatori e degli arrampicatori sociali, l’ignoranza dei magistrati, l’intolleranza religiosa, l’ipocrisia dei cattolici, le frustrazioni sessuali del clero; può denunciare l’involuzione autoritaria della monarchia francese, e può soprattutto mostrare la parzialità della mentalità eurocentrica che considera le consuetudini e le istituzioni europee come un parametro assoluto e universale. D’altra parte, il relativismo, che caratterizza sin da quest’opera in modo decisivo il pensiero di Montesquieu, non implica compiacenza o indulgenza verso il il dispotismo e le forme di asservimento del mondo orientale, i cui costumi politici, religiosi, familiari e sessuali hanno costi umani, sociali e demografici altissimi. Montesquieu ci ricorda i limiti della conoscenza, facendoci notare che nessuna critica è possibile senza investire anche noi stessi. Rimane facile vedere con razionalità oggettiva un mondo culturale estraneo, è difficile vedere il proprio.

Questo relativismo ispira anche la metodologia dello Spirito delle leggi, uno dei testi capitali della civiltà giuridico-politica occidentale. Tuttavia, nell’opera troviamo anche la fiducia nelle possibilità conoscitive delle scienze, che si traduce nel tentativo di estendere il metodo sperimentale allo studio della politica e del diritto. Per Montesquieu, le scienze sociali hanno il medesimo fondamento empirico delle scienze naturali, e dunque le leggi cui sono sottoposte le istituzioni civili e sociali sono ricavabili non da un aprioristico nucleo razionale, come vorrebbe il giusnaturalismo, ma da nessi tra fenomeni storicamente accertati, che occorre rintracciare. La critica del dispotismo e la ricerca dei mezzi atti a prevenirlo, motivo dominante del pensiero del filosofo, fanno perciò tutt’uno con il progetto di una scienza storico-sociale attenta a descrivere i fenomeni cui siamo soggetti durante la nostra esistenza. Di qui ricaviamo anche l’antiutopismo di Montesquieu: non ha senso descrivere e cercare la società perfetta e razionale, ma è necessario, semmai, rendere perfettibili e razionalizzare i sistemi effettivamente esistenti. Spirito delle leggi è alla lettera, per Montesquieu, l’impronta, il carattere che anima e ispira i vari sistemi istituzionali e giuridici, da lui analizzati attraverso quel metodo comparativo che rappresenta una delle grandi novità dell’opera. La sola regola generale che si può facilmente ricavare dall’esame comparato delle leggi politiche e civili è il loro variare in relazione a una molteplicità di fattori che l’autore non dispone in ordine gerarchico di importanza, anche se di fatto le caratteristiche del territorio e del clima, i comportamenti demografici, lo stile di vita, le attività produttive, le arti, i costumi, le mentalità e le credenze religiose spiccano su ogni altro. Dall’intreccio di tali fattori mutevoli emerge l’individualità, la personalità dei diversi popoli, la cui varietà è tale da rendere inutile il ricorso alla vuota categoria di una natura umana universale e immutabile nello spazio e nel tempo. Ne consegue logicamente che le leggi di un popolo risultino sovente adatte esclusivamente a dirigere quello stesso popolo, e solo eccezionalmente le stesse possono convenire a un altro popolo; i popoli non debbono modellarsi sulle leggi, ma le leggi modellarsi sui popoli. Dunque, ne consegue che l’interesse si deve concentrare non già sul diritto naturale, ma sulle leggi positive che reggono le società reali (leggera polemica nei confronti del giusnaturalismo, che si rivela in questa luce inutile sul piano teorico).

L’Esprit des Lois: un vero e proprio monumento di giurisprudenza comparata e di politica comparata. Come definisce le leggi? come <>. Prima che vi fossero leggi scritte, ci dice lo stesso teorico, c’erano dei rapporti di giustizia possibili. Bisogna considerare un uomo prima della costituzione della società: le leggi di natura saranno quelle che riceverà in tale stato.

Possiamo facilmente sostenere che la vivacità delle idee politiche degli illuministi francesi si rivelò anche sul piano della divulgazione del pensiero politico di Locke. Fu proprio Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), a riprendere la tematica lockiana di un testo costituzionale che avrebbe dovuto sancire il duplice principio della divisione dei poteri e del loro reciproco controllo come base di una convivenza civile entro i confini statali. Come Locke, anche il barone postulava la necessità che i ruoli del potere legislativo (affidato a un’assemblea parlamentare), del potere esecutivo (demandato al monarca e da questi al governo) e del potere giudiziario (concentrato nelle mani di un corpo professionale di giudici) dovessero essere esercitati in piena reciproca indipendenza. La divisone delle funzioni non si sarebbe comunque rivelata sufficiente. Ciascuno di tali poteri avrebbe dovuto vigilare sugli altri al fine di scongiurare un qualsiasi sconfinamento dalle proprie competenze prestabilite. Montesquieu e altri illuministi consideravano il duplice principio costituzionale non solo l’unica garanzia reale da poter contrapporre alla degenerazione della monarchia in dispotismo, ma anche come l’espressione giuridica e istituzionale di un più radicale e profondo principio, quello di libertà che essi, con una suggestiva metafora filosofica che aveva lontane ascendenze medievali, consideravano radicato nella natura. Secondo la loro concezione, essendo la natura la fonte ultima della vita ed essendo in essa inscritti i diritti fondamentali di libertà (di proprietà, di pensiero, di associazione ecc.), nessun potere politico, salvo agire contro natura, poteva imporre loro una limitazione.
Del resto, il potere politico trovava a sua volta un preciso limite nella circostanza che la sua legittimità si fondava su un patto originario degli uomini che, per uscire dalla condizione di permanente conflittualità legata al loro primitivo “stato di natura”, avevano stipulato un contratto comune per istituire una forma di potere statale che garantisse il rispetto dei diritti di libertà naturali, la pace sociale e l’equilibrio tra gli interessi. Nel caso in cui lo Stato avesse violato i diritti di libertà naturali (come nel caso dell’assolutismo) ne seguiva che il suo potere perdeva del tutto efficacia, dal momento che la sua legittimità si fondava su un contratto revocabile qualora uno dei contraenti fosse venuto meno ai termini dell’accordo. Questa dottrina delle libertà naturali originarie dell’uomo (definita giusnaturalismo) e questa teoria del contratto originario (designata con il termine contrattualismo) non si traducevano comunque necessariamente in un profilo istituzionale precostituito.

LA TEORIA DEI GOVERNI
Innovativo è l’approccio di Montesquieu al classico tema della tipologia delle forme di governo: le precedenti classificazioni avevano difatti assunto come criterio principalmente l’aspetto quantitativo, ovvero il numero di individui che esercitano il potere; Montesquieu invece antepone a questo criterio un principio qualitativo di legittimità, che ha come discriminante l’esistenza o meno di un governo costituzionale. In sostanza, la monarchia si avvicina alla repubblica (democratica o aristocratica che sia), poiché ambedue si reggono su leggi fisse e stabilite. Essa si allontana invece dal dispotismo, nel quale è secondario il fatto che vi sia un governo di uno solo, e decisiva invece l’assenza di leggi costituzionali, bilanciamenti e controlli capaci di frenare il potere del despota.
E di ciascun sistema istituzionale Montesquieu descrive lo spirito e le caratteristiche concrete delle leggi nei vari ambiti in cui si articolano la società e lo stato: l’educazione, la legislazione civile e penale, le libertà, l’apparato militare, il sistema commerciale, monetario e fiscale. Ogni sistema istituzionale si regge su un ethos che permea la mentalità e i sentimenti del popolo amministrato: la democrazia sulla virtù civile, l’aristocrazia sulla moderazione, la monarchia sull’onore, il dispotismo sulla paura. L’elemento determinante per la sopravvivenza di uno stato è l’educazione, salvo il caso dello stato dispotico, che si regge sull’ignoranza.
Qual è lo stato più ammirevole secondo la teoria di Montesquieu? La repubblica democratica indubitabilmente, che però è anche il più fragile: il popolo infatti è troppo soggetto alle passioni per poter esercitare direttamente il potere; inoltre, il filosofo ritiene che il sistema dell’uguaglianza politica possa funzionare solo su piccola scala (qui verrà smentito dalla Rivoluzione americana). Rimane preferibile dunque la monarchia, purché limitata attraverso i corpi intermedi (i parlamenti, le magistrature e gli istituti rappresentativi di tre ordini). Nonostante ciò anche la monarchia desta preoccupazione, perché il sovrano può essere sempre tentato di stravolgere le leggi fondamentali e di scavalcare o sopprimere i corpi intermedi, che costituiscono l’essenza stessa della monarchia: i diritti costituzionali e le prerogative della nobiltà, del clero, del terzo stato e delle città sono dunque indispensabili per preservare una monarchia dall’assolutismo.
Il mantenimento di una magistratura indipendente, di un sistema di barriere contro la tirannide costruito non in astratto, ma a partire da istituti effettivamente esistenti, appare come l’unica soluzione praticabile per raggiungere una sorta di uguaglianza giuridica e civile tra i cittadini. Ma, sul piano teorico, la sua prospettiva costituzionalista va ben oltre: dalla convinzione che la libertà politica necessiti, per il suo effettivo esercizio, di accorgimenti istituzionali e di un sistema di garanzie, nasce la teoria, tuttora alla base del moderno stato di diritto, della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario sono tre organi distinti e autonomi che si equilibrano e bilanciano reciprocamente) e dall’indipendenza della magistratura (il sistema giudiziario va necessariamente affidato a una magistratura permanente, protetta da interferenze esterne alla sua neutralità super partes). E la legge, accanto alla sua tradizionale funzione costrittiva, ne assume anche una garantista, come strumento di protezione e tutela delle libertà civili, pubbliche e private.

LA TEORIA DEI GOVERNI:
Montesquieu abbandona la tradizionale classificazione – democrazia, aristocrazia, monarchia – per sostituirvi quella repubblica, monarchia, dispotismo, con lo stesso autore che si trova a dover inoltrare un’ulteriore distinzione, sotto l’etichetta di repubblica, tra democrazia e aristocrazia.
Questo perché bisogna distinguere, in ogni governo, la sua natura ed il suo principio. La sua natura è ciò che lo fa essere tale, la sua struttura particolare; il suo principio è invece ciò che lo fa agire, le passioni umane che lo fanno muovere. Le leggi devono essere relative alla natura del governo e, in misura non inferiore, al principio del governo che ha su di esse una suprema influenza. Tale rapporto delle leggi con il principio del governo ne mantiene in tensione tutti i moventi ed il principio ne riceve, a sua volta, una forza nuova. Ne consegue logicamente che la corruzione dei governi comincia, praticamente sempre, da quella dei principi: difatti, ogni volta che i principi del governo sono corrotti, le migliori leggi divengono cattive e si rivolgono contro lo Stato; quando i principi sono sani, quelli cattivi hanno il medesimo effetto dei buoni.
Dice Montesquieu: ci sono tre specie di governi: il repubblicano, il monarchico ed il dispotico; per scoprirne la natura è sufficiente l’idea che ne hanno gli uomini meno istruiti. Io suppongo tre definizioni, o piuttosto tre fatti: che il governo repubblicano sia quello in cui il popolo, nel suo complesso, o soltanto una parte di esso, detiene il potere sovrano; il monarchico, quello in cui uno solo governa, ma attraverso leggi fisse e stabilite; mentre nel governo dispotico un solo individuo, senza leggi né regole, trascina tutto secondo la sua volontà ed i suoi capricci. Questo è quanto definisco come natura di ogni governo.

REPUBBLICA DEMOCRATICA
La sua natura, ciò che la fa tale, la sua struttura particolare, è il popolo, cioè l’insieme dei cittadini. Il popolo vi appare sotto due aspetti opposti e complementari: per certi aspetti è il monarca (nella misura in cui dà i suoi suffragi, che ne costituiscono la volontà), per certi altri è il suddito. Le leggi che stabiliscono il diritto di suffragio sono la base di questo tipo di governo. Il popolo, nella sua qualità di sovrano, deve fare il massimo rispetto alle sue possibilità, e quello che scientemente si rende conto di non poter far bene bisogna che lo faccia attraverso ministri o magistrati da lui stesso scelti, affinché questa scelta possa esser fatta con grande oculatezza.
Da non trascurare qui un fattore essenziale, quello delle dimensioni; rientra nella natura di una repubblica democratica, come, d’altra parte, di una aristocratica, che essa non possieda che un piccolo territorio, condizione senza la quale non può quasi sussistere. Il bene comune, infatti, in una grande repubblica è incessantemente sacrificato, messo a repentaglio dalle grandi fortune, dalla particolarizzazione degli interessi, mentre in una piccola repubblica è più sentito, conosciuto e vicino ad ogni cittadino: sono queste le condizioni esattamente favorevoli al mantenimento del principio della democrazia. Il suo principio, ciò che la fa agire, il suo movente, è, in effetti, la virtù (intesa nella sua accezione politica). Tale virtù esige che si faccia allo Stato, all’interesse pubblico, un continuo sacrificio di se stessi e delle proprie ripugnanze, del proprio egoismo, della propria indisciplina, della propria avidità. Questo perché la democrazia è il governo della maggioranza per sua natura. Se funziona male, se le leggi cessano di essere applicate, la causa non può risiedere che nella corruzione del carattere della maggioranza. Mentre, al contrario, è facile ad un monarca che commette errori a causa di cattivi consiglieri, cambiare questi ultimi o correggersi della propria negligenza.
Necessario è che tale virtù non venga mai meno, ed è per questo che nel governo democratico si ha bisogno dell’onnipotenza dell’educazione, per imprimere nei bambini questa rinuncia a se stessi, questa necessaria preferenza dell’interesse pubblico al proprio. Il governo è dunque affidato ad ogni cittadino; bisogna perciò che ogni cittadino venga indirizzato ad amarlo, e ad amare al tempo stesso l’eguaglianza e la frugalità, che costituiscono l’essenza stessa della democrazia. Tutte le leggi devono indirizzarsi in questo senso. Austera virtù delle austere repubbliche!
Il regime, come detto, si corrompe quando viene meno lo spirito di eguaglianza, forma propria della virtù; ma si corrompe anche quando questo spirito di eguaglianza diviene estremo, e cessa allora di essere virtù. Ciò si verifica quando nessuno vuole più avere padroni, quando ognuno vuole essere uguale a quelli che egli stesso si è scelto perché lo comandassero; allora il popolo non può tollerare nemmeno il potere da lui delegato. Qui si sfocia inevitabilmente nella tirannia; si formano piccoli tiranni che hanno tutti i vizi di uno solo. Ben presto ogni sopravvivenza di libertà diviene insopportabile; si fa avanti un solo tiranno, e il popolo perde tutto, perfino i vantaggi della sua corruzione. Concludiamo con questa massima: gli uomini sono uguali nel governo repubblicano perché sono tutto, ma sono uguali anche nel dispotismo, perché non sono niente.

REPUBBLICA ARISTOCRATICA
Come è noto, entro un’aristocrazia il potere sovrano risiede non nel complesso del popolo, ma in un certo numero di persone. Più questo numero è grande, più l’istituzione si avvicina alla democrazia, e più è perfetta; la migliore aristocrazia, ci dice Montesquieu, è quella in cui la parte del popolo che non partecipa al potere è così piccola e povera, che la parte dominante non ha alcun interesse ad opprimerla. Insomma, per Montesquieu l’aristocrazia è una sorta di democrazia ristretta, condensata e depurata, dove il potere viene riservato ai cittadini distinti per nascita e preparati al governo dall’educazione. Il principio non è più esattamente la virtù, ma consiste in un certo spirito di moderazione in coloro che comandano (i nobili).

MONARCHIA
Un solo individuo governa, un solo individuo è la fonte di ogni potere; ma governa attraverso leggi fisse e stabilite, fondamenti stessi del regno, delle leggi fondanti e fondamentali: il loro carattere di fissità argina la volontà momentanea e capricciosa del monarca. Ciò d’altra parte suppone l’esistenza di poteri intermedi e di un deposito delle leggi.
Poteri intermedi, naturalmente subordinati e dipendenti, ma con un ruolo centrale: senza di essi la potenza sovrana inonderebbe tutto. Essi la canalizzano, ne smorzano lo slancio smodato. Quali sono questi poteri intermedi?
La nobiltà, in primo luogo. Il clero, pericoloso in una repubblica come ogni altro corpo indipendente, è utile invece in una monarchia, soprattutto in quelle che tendono ad avvicinarsi al dispotismo. Poteri intermedi anche le città con i loro privilegi.
Deposito delle leggi: queste leggi fondamentali, fisse e stabilite, devono però essere sotto la custodia di un corpo scelto con estrema razionalità e lungimiranza, nuovo potere intermedio, nuovo canale attraverso cui si regola e si rallenta il corso della sovranità. Questo corpo detiene la fondamentale funzione di annunciare che le leggi sono state fatte e, soprattutto, le ricorda incessantemente, le strappa alla dimenticanza. Montesquieu riserva ai Parlamenti, grandi corpi giudiziari, l’ufficio di deposito delle leggi. Cosa rara è la sedizione all’interno di una monarchia così funzionante in quanto, quando i poteri intermedi non vogliono che il popolo prenda troppo il sopravvento, attivano persone sagge ed autorevoli, che prendono immediatamente delle misure, realizzano accomodamenti e modifiche, in modo tale che le leggi riprendano nuovo vigore.
Da non dimenticare che, se la forma repubblicana esige Stati limitati territorialmente, la forma monarchica è connessa a sua volta ad una certa dimensione territoriale né eccessivamente piccola né eccessivamente grande, media. La monarchia, basata sulle preminenze, i ranghi, una nobiltà ereditaria, privilegi di tutti i tipi, in altre parole, su distinzioni nette e durevoli tra le persone e le condizioni sociali, consacranti l’ineguaglianza, non può avere la virtù per movente, pur non escludendola per principio. Tuttavia, il governo monarchico ha anch’esso un movente proprio, che può ispirare le più belle azioni e, congiunto alla forza delle leggi, condurre al fine dello Stato; questo movente, è l’onore, ovvero il pregiudizio di ogni persona e di ogni condizione. Onore inteso come ambizione, così rovinosa in una repubblica, ma, in una monarchia, molla così preziosa, in quanto mette in movimento e lega tutte le parti del corpo politico. L’onore, incapace di piegarsi, avendo le sue regole fisse ed i suoi capricci, non può trovarsi che negli Stati a Costituzione fissa e che dispongono di leggi certe. Il dispotismo lo esclude dunque nella misura stessa in cui lo implica la monarchia. Da cui deriva che l’onore, che serve lo stato monarchico, pone un nuovo limite alla pretese arbitrarie della sovranità; così fortifica l’azione dei poteri intermedi e del deposito delle leggi. Le monarchie si corrompono allorché si tolgono, a poco a poco le prerogative ai corpi o i privilegi alle città… Si va… verso il dispotismo di un solo individuo.

DISPOTISMO
Montesquieu ci propone, nella sua caratteristica maniera generalizzante, la sua personale interpretazione della Costituzione francese: è quella di un nobile liberale. Suddito fedele della più vecchia monarchia d’Europa, aveva appreso, sotto la Reggenza, a detestare Richelieu e Luigi XIV, corruttori, ai suoi occhi, del vero governo monarchico, quello temperato. Corpi intermedi, deposito delle leggi, privilegi, onore: Montesquieu mobilita tutto ciò che può arrestare la monarchia francese sulla china deprecabile e spaventosa del dispotismo. Che uno Stato passi da un governo moderato ad un altro governo moderato, dalla repubblica alla monarchia, o dalla monarchia alla repubblica, non è grave, ma quando cade e precipita dal governo moderato al dispotismo, al governo violento, quella è la reale disgrazia. Il dispotismo lo considera un vero e proprio insulto alla natura umana. Quest’ultima, che si esalta attraverso la virtù repubblicana, che ha il proprio tornaconto nell’onore monarchico, si avvilisce, si degrada sotto un governo fatto per le bestie, più che per gli uomini. Montesquieu ha tenuto a proclamare con forza la differenza radicale di principio, come di natura, che deve necessariamente separare un governo moderato da un governo violento. La virtù non ha rapporti con un tal regime, l’onore vi è pericoloso; la paura ne è il vero principio, la tranquillità il fine. Il retaggio degli uomini è, come negli animali, l’istinto, l’obbedienza, il castigo. Obbedienza che non può in alcun modo essere temperata, ma deve essere necessariamente assoluta. Mettere la paura nei cuori, abbassarli per renderli servili, imprimere nello spirito qualche semplicissimo principio religioso, questo è tutto. L’educazione è inesistente, il sapere è troppo pericoloso sotto un regime del genere. Non ci vogliono molte leggi in un governo dispotico, dove tutto deve imperniarsi su due o tre idee di base che non cambiano.

La teoria della libertà politica:
– La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono; e, se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non ci sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero anch’essi questo stesso potere-
Tale è la libertà della costituzione, fondamento della libertà del cittadino.
– La libertà politica in un cittadino è quella tranquillità di spirito che deriva dalla consapevolezza individuale della propria sicurezza, e per avere questa libertà bisogna che il governo sia tale che un cittadino non debba temere un altro cittadino-
Come visto, questa libertà non si trova sempre nei governi moderati, repubblicani o monarchici, perché l’abuso del potere, dunque l’attentato alla sicurezza del cittadino, non è affatto escluso da queste forme di governo. Chiunque detiene un potere è portato ad abusarne per propria indole, finché non trova dei limiti al di sopra delle sue personali possibilità. L’abuso del potere è impedito soltanto nel caso in cui, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere; il che presuppone non un potere unico e concentrato, ma una frammentazione del potere ed una certa distribuzione dei poteri separati.

LA TEORIA DEI CLIMI
Se è vero che il carattere spirituale e le passioni sono estremamente diverse nei diversi climi, le leggi avranno da essere relative alla differenza di tali passioni e di tali caratteri.
Nei climi freddi si ha dunque maggior vigore. Questa maggior forza non può non produrre svariati effetti: per esempio maggior confidenza in se stessi, cioè maggior coraggio; consapevolezza della propria superiorità, cioè minor desiderio di vendetta; maggior senso di sicurezza, cioè più franchezza, meno sospetti e meno intrighi politici. Essa produrrà inoltre caratteri diversi e tipici. Si immagini un uomo racchiuso in un luogo caldo: egli soffrirà, per ciò stesso, di grande prostrazione. Se, in tale circostanza, gli si propone una azione coraggiosa, ne sarà tutt’altro che entusiasta; per la sua attuale debolezza, la sua anima sarà invasa dallo scoraggiamento; egli avrà paura di tutto, avrà la sensazione di non potere nulla. I popoli dei paesi caldi sono vili come lo sono i vecchi; quelli dei paesi freddi coraggiosi come i giovani.
Nei paesi freddi si avrà scarsa sensibilità per i piaceri; essa sarà maggiore nei paesi temperati, estrema nei paesi caldi. Così come si distinguono i climi mediante i gradi di latitudine, li si potrebbe anche distinguere, per così dire, mediante i gradi della sensibilità.
Nei climi nordici troverete popoli che hanno pochi vizi e molte virtù, grande franchezza e sincerità. Avvicinatevi al mezzogiorno, e avrete l’impressione di allontanarvi dalla morale stessa: passioni più vive moltiplicheranno i delitti; ciascuno cercherà di prevalere sugli altri per dare più libero sfogo a queste stesse passioni. Nei paesi temperati troverete invece popoli incostanti nel loro comportamento, sia nei loro vizi che nelle loro virtù; il clima non è sufficientemente caratterizzato per poter determinare con maggior precisione i loro caratteri.
Il calore in certi climi può essere così eccessivo da privare totalmente il corpo della sua forza. La fiacchezza si comunicherà allora allo spirito stesso; non si avrà più alcuna curiosità, alcun desiderio di nobili imprese, alcun sentimento generoso; le inclinazioni saranno tutte passive; la felicità sarà identificata con la pigrizia.

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