Fichte: la rivendicazione della patria

J. G. Fichte (filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco. Le sue opere più famose sono la Dottrina della scienza, e i Discorsi alla nazione tedesca, nei quali sosteneva la superiorità culturale della Germania incitando il suo popolo a combattere contro Napoleone) nel 1793 aveva dato la sua entusiastica adesione alla Rivoluzione francese, individuando in essa il primo passo compiuto dagli uomini per costruire quella società universale libera (la Cosmopoli) auspicata dai Lumi.

Progressivamente, tuttavia, nel pensiero di Fichte l’ideale cosmopolitico si trasformò originalmente. Vediamo come.
Per il filosofo il fine ultimo della storia rimaneva la realizzazione d’una società universale umana rigenerata dalla libertà; tuttavia, gli Stati nazionali diventavano sempre più i momenti concreti di questo processo di liberazione, un elemento imprescindibile. Insomma, il cosmopolitismo deve realizzarsi come patriottismo. Lo svolgimento progressivo della storia era pensato da Fichte come processo di autoeducazione del genere umano. Individui, nazioni, umanità, sono i protagonisti di un’azione di reciproco perfezionamento per cui ciascuno, operando secondo la propria specifica attitudine, dà e riceve, migliora ed è migliorato. Così gli individui e le nazioni (i cosiddetti ‘finiti’) trovano la loro giustificazione realizzandosi nell’infinito, rappresentato dall’universale umanità, ed in tal modo si sottraggono al destino effimero del finito.

Durante la prima fase della sua esperienza politica, dominata dall’avvento della Rivoluzione, patria per Fichte è quella che guida l’umanità: egli si sente cittadino della nazione guida, non della patria naturale. Ma dopo il 1806, dopo il disastro tedesco di Jena, la minaccia concreta della distruzione della Germania, la prospettiva dell’inserimento della sua patria nel sistema autocratico di Napoleone, comincia a sospettare e a temere uno sradicamento totale, quasi la vanificazione di quel momento finito e determinato ove solo è possibile agire e realizzarsi.
Da tutto ciò è spinto ad un profondo ripensamento della sua dottrina. Esige l’esistenza della sua patria tedesca, la implora, ne rivendica i diritti, la missione, il primato con esclusivistica durezza, con nazionalistico linguaggio. Sono le tesi dei ‘Discorsi alla nazione tedesca’ del 1808. Anche se il tono è profondamente cambiato, non v’è contraddizione con le affermazioni degli anni precedenti. Il popolo tedesco, in un momento di svolta storica, è diventato, secondo il filosofo, il popolo guida. Esso, lottando contro Napoleone, ha assunto su di sé la missione universale, sia perché lotta contro il dispotismo, sia perché esso solo è rimasto popolo incorrotto in un mondo guasto ed artificiale, deviato da falsi ideali. Esser tedesco significa credere nella libertà e nella infinita perfettibilità del genere umano. Fichte incita alla lotta armata in difesa delle peculiarità della propria patria.

I ‘Discorsi’, che segnano di fatto l’atto di nascita dello Stato nazionale moderno, poterono esser considerati da alcuni il testo dal quale prorompono gli ideali ottocenteschi dello Stato nazionale, da altri quasi una Bibbia del nazionalismo o, addirittura, del nazismo (forse un’estremizzazione eccessiva).

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