Il cauto riformismo dei sovrani: lo Stato pontificio.

Il cauto riformismo dei sovrani negli anni Trenta dell’Ottocento: lo Stato pontificio.

Lo Stato pontificio, diversamente dagli altri, era governato da un ristretto numero di alti prelati che si consideravano non propriamente dei pubblici funzionari, bensì dei detentori di un beneficio ecclesiastico del quale potevano disporre in quanto uomini rappresentativi della Chiesa. Durante il periodo napoleonico la nuova borghesia dei mercanti, degli speculatori, dei professionisti si era andata consolidando, sicché ben presto si delinearono i termini del conflitto che si sarebbe combattuto nei decenni centrali del Secolo, tra la società civile, tendente a infrangere il monopolio ecclesiastico dell’amministrazione, e la Curia romana, immobile nella difesa dei propri privilegi.

Erano destinate a naufragare le istanze che, intorno al 1816, l’illuminato cardinale Ercole Consalvi (Roma, 8 giugno 1757 – Roma, 24 gennaio 1824) avanzò, proponendo di aprire l’amministrazione ai laici, sia pure con funzioni esclusivamente consultive. Lo scontro si acuì durante il lungo pontificato di Papa Gregorio XVI (Belluno, 18 settembre 1765 – Roma, 1º giugno 1846), 254º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 2 febbraio 1831 alla morte; apparteneva alla Congregazione Camaldolese dell’Ordine di San Benedetto. Gregorio XVI venne definito “un bellunese testardo e devoto”. Rese a tutti evidente di come fosse difficile conciliare le funzioni di sovrano moderno con quelle di capo della Chiesa. La separazione tra il potere ecclesiastico e quello civile, la secolarizzazione degli uffici governativi, l’elezione dei consigli comunali erano state al centro delle richieste avanzate da quei gruppi che erano scesi armati nelle piazze cittadine in occasione dei moti del 1831. La ribellione delle Legazioni non convinse alla prudenza il governo pontificio. Dopo la partenza delle truppe austriache l’impianto amministrativo venne riordinato secondo un compromesso che tutti giudicarono inadeguato. A capo delle province e dei comuni rimasero gli ecclesiastici: ai laici vennero concesse funzioni di consulenza, ma la Curia romana si riservò comunque il diritto di selezionare e nominare, a suo arbitrio, il personale dei nuovi consigli.

Anche le altre iniziative riformatrici (Guardia civica, codice e tribunali, sistema doganale) furono viziate da un impianto paternalistico che ne rese logicamente l’esito incerto e contraddittorio. Il malcontento e le agitazioni rimasero forti e diffusi in tutto lo Stato pontificio. Nelle progredite e ricche province che dall’Appennino proseguivano verso il mare (Bologna, Forlì, Ferrara, Ravenna) la proprietà terriera si concentrò nelle mani della borghesia. La progressiva emarginazione della mezzadria e la formazione di grosse aziende d’impianto moderno contribuirono a creare, con un diffuso bracciantato agricolo, quelle tensioni sociali e quelle irrequietezze politiche che si manifesteranno aspramente nella seconda metà del Secolo.

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