Smith: La ricchezza delle Nazioni

Continuiamo nella nostra disamina del pensiero di Adam Smith, considerato, come detto nel precedente articolo, il fondatore del liberalismo economico. Secondo l’economista, la ricchezza corrente di una nazione dipende in prima istanza dall’accumulazione del capitale, in quanto è proprio questa a determinare la divisione del lavoro e la proporzione della popolazione impiegata nei lavori produttivi. L’accumulazione, in sostanza, porta allo sviluppo economico. L’interesse individuale, se abbinato a quest’ultima, favorisce l’allocazione ottimale del capitale tra le varie industrie. La ricerca del guadagno e del profitto, che è ciò che muove le scelte del capitalista, conduce ad un’allocazione efficiente delle risorse e quindi ad una crescita. I lavoratori non sono messi nelle condizioni di accumulare capitale, in quanto il livello di salario da loro percepito permette soltanto la soddisfazione degli immediati desideri di consumo. I proprietari spendono il loro reddito per soddisfare la loro propensione al lusso. Quindi, in sostanza, i membri della nascente classe industriale sono gli unici soggetti tesi alla realizzazione di profitti e all’accumulazione di capitale tramite il risparmio e il conseguente investimento. Dunque, la diseguale distribuzione del reddito a favore del capitalista sembra esser il presupposto della crescita economica di una nazione.

Smith critica i mercantilisti, i quali consideravano la ricchezza come un fondo formato dall’accumulazione di metalli preziosi, invece che pensarla come un flusso annuale di beni e servizi prodotti. Per Smith il consumo è lo scopo dell’attività economica, ed il lavoro è la fonte per eccellenza della ricchezza (misurata in termini pro capite) di una nazione. E quindi, la stessa ricchezza di una nazione dipende da due principali componenti: dalla produttività del lavoro e dalla proporzione dei lavoratori impiegati in modo utile e produttivo.

La produttività del lavoro (la prima delle due componenti) dipende principalmente dalla divisione del lavoro, che porta ad un aumento complessivo del benessere. Quanto più grande è il mercato, tanto maggiore è la quantità vendibile e quindi l’opportunità di introdurre la divisione del lavoro in maniera ottimale. Man mano che quest’ultima aumenta, i lavoratori non producono più beni per il proprio consumo personale, per cui deve essere costituito uno stock di beni di consumo (che proviene dai risparmi) che permetta loro di mantenersi nell’intervallo di tempo necessario al processo produttivo. Quindi, i capitalisti forniscono i mezzi che consentono di sopportare la distanza tra l’inizio della produzione e la vendita del prodotto finale.
Il lavoro produttivo è quello impiegato per produrre beni vendibili, mentre il lavoro improduttivo viene impiegato per produrre servizi. Quindi l’attività dei capitalisti, determinando una maggiore produzione di merci, apporta un logico beneficio alla crescita economica e allo sviluppo. La ricchezza complessiva sarà tanto più grande quanto maggiore sarà nell’economia la quota di forza lavoro assorbita dalla produzione di beni tangibile. Necessario si rivela il tentativo di limitare al minimo l’intervento del governo, in modo da abbassare le tasse sulle attività produttive dei capitalisti, consentendogli così di accumulare più capitale.

La conclusione cui giungiamo, che è poi anche l’assunto da cui siamo partiti all’inizio della nostra analisi del pensiero di Smith, è che la vera causa della ricchezza di una nazione è l’accumulazione di capitale, che richiede un modello istituzionali di libero mercato – consente che un dato livello della spesa di investimento venga allocato in modo tale da garantire il maggior saggio possibile di crescita economica – e di proprietà privata – tramite questa si potrà raggiungere quella necessaria diseguale distribuzione del reddito che sostiene gli alti saggi di accumulazione del capitale -.

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