La teoria del valore-lavoro di Marx

Marx, nell’approntare una sua teoria dei prezzi relativi (una teoria, quindi, delle relazioni di tipo quantitativo tra cose o tra merci), sosteneva questo: dal momento che i prezzi delle merci rendono manifeste alcune relazioni di tipo quantitativo, tutte le merci devono per forza avere un elemento in comune, quantitativamente misurabile in modo certo. Arriva alla conclusione che sia la quantità di lavoro necessaria alla produzione delle merci il fattore che governa la determinazione dei prezzi relativi (nel rapporto di scambio tra due beni esprime la quantità di uno di essi necessaria per acquistare uno o più unità dell’altro bene; il prezzo relativo è dunque uguale al rapporto tra i prezzi dei due beni).

Per Marx l’unico costo sociale richiesto dalla produzione delle merci è il lavoro. Commette però un errore: ponendosi al più alto livello possibile di astrazione egli ignora la questione delle diverse abilità dei lavoratori per concentrarsi sulla nozione per cui la quantità totale di lavoro disponibile all’interno della società per produrre merci è una quantità omogenea, chiamata, appunto, lavoro astratto. Così la produzione di una qualsiasi merce richiederebbe l’impiego di una parte dell’intera offerta di lavoro astratto, e i prezzi relativi delle varie merci rispecchierebbero le diverse quantità di questa astratta offerta di lavoro, misurata in ore di lavoro, necessaria alla loro produzione. Non viene considerato, però, un aspetto fondamentale, che potremmo chiamare lavoro qualificato, vale a dire il problema di lavoratori dotati di diverse abilità che sarebbero stati capaci di produrre quantità differenti di prodotto nello stesso tempo.

Marx, per far fronte a tale problema, decide di ridurre il livello di astrazione della sua analisi, proponendo di misurare la quantità di lavoro richiesta dalla produzione di un bene attraverso il ‘tempo di lavoro socialmente necessario’, definito come il tempo di lavoro impiegato nella produzione da parte di un lavoratore in possesso del livello medio di abilità normalmente posseduta dai lavoratori in quel dato periodo. Se un lavoratore fosse stato dotato di un’abilità superiore a quella media, la sua abilità sarebbe stata riportata pari a quella media misurando la sua maggiore produttività e compiendo di conseguenza i necessari aggiustamenti.

Per quanto riguarda il problema dato dall’influenza esercitata dai beni capitali (utilizzati nella produzione di altri beni ma non consumati interamente nello stesso periodo in cui essi vengono prodotti) sulla formazione dei prezzi relativi, Marx adotta la soluzione che era già stata individuata in precedenza da Ricardo, ovvero quella di considerare il capitale come lavoro accumulato. In base a tale soluzione il tempo di lavoro necessario a produrre un bene finisce per coincidere con il numero di ore di lavoro immediatamente applicato alla produzione, più il numero di ore di lavoro richiesto dalla produzione del capitale andato poi distrutto durante il processo di produzione.

Una teoria del valore-lavoro deve poi risolvere tutte le questioni legate all’esistenza di terre di diversa fertilità, per cui la stessa quantità di tempo di lavoro conduce a una diversa produzione a seconda appunto della fertilità della terra sulla quale questa è stata applicata. Marx affronta tale problematica ricorrendo alla teoria della rendita differenziale già sviluppata da Ricardo. In base a questa teoria la superiore produttività del lavoro svolto su una terra di maggiore fertilità è assorbita dal proprietario terriero a titolo di rendita differenziale, e la concorrenza farebbe sì che la rendita pagata sulle terre migliori cresca fino a che il saggio di profitto risulti lo stesso su tutti gli appezzamenti. In questa accezione è dunque la rendita ad essere determinata dal prezzo, e non il contrario.

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