Il principio di legittimità fu invocato dai diplomatici con forza, soprattutto per ristabilire sui loro troni i re travolti dalla Rivoluzione e da Napoleone, e anche per contrastare le aspirazioni nazionali dei popoli. Questo principio riconosceva il diritto di esercitare il potere e di trasmetterlo ereditariamente solo ai sovrani “legittimi”, ovvero ai sovrani la cui autorità fosse consolidata da una tradizione riconosciuta ed antica. Tale principio fu tuttavia temperato dalla necessità di assicurare l’equilibrio tra i grandi Stati continentali. In quell’occasione, i protagonisti della politica internazionale furono ancora gli Stati quali realtà dinastico-territoriale, e men che mai i popoli; e tra gli Stati venne stabilita una gerarchia di gradi e di sedi diplomatiche, e formalizzate alacremente le modalità per lo scambio degli ambasciatori. Si riconobbe finalmente l’esistenza di comuni interessi tra le potenze europee e si convenne sulla possibilità di risolvere le contese per via diplomatica e pacifica.
Il Congresso di Vienna, a ben guardare, poté conseguire un parziale successo anche perché, in precedenza, erano stati affrontati e risolti numerosi problemi secondari, sicché i “grandi” poterono concentrare finalmente la loro attenzione sulle questioni rimaste insolute e procedere con maggiore convinzione a creare una nuova sistemazione dei rapporti di forza. Fra i risultati largamente positivi conseguiti dal Congresso va ricordata la condanna pronunziata contro la tratta degli schiavi. Se ne fece promotrice l’Inghilterra, oltre che per ragioni umanitarie, anche per opportunismo, visto che il commercio dei neri non risultava essere più produttivo. Di fatto, tuttavia, ancora nel 1848 il traffico illegale degli schiavi continuava ad essere fiorente. Ma la ferma condanna pronunziata a Vienna costituì pur sempre una tappa fondamentale nella lotta contro le discriminazioni razziali.