WWII: l’occupazione tedesca di Roma

10 settembre 1943, Seconda guerra mondiale: inizia l’occupazione di Roma.

L’occupazione tedesca di Roma è l’espressione unanimemente riconosciuta per riferirsi agli eventi che avvennero nella Capitale italiana a partire dall’8 settembre 1943 e nei giorni immediatamente successivi, a seguito dell’armistizio di Cassibile e dell’immediata reazione militare delle forze tedesche della Wehrmacht schierate a sud e a nord della città.

I contingenti militari tedeschi seguirono le direttive operative stabilite da Adolf Hitler in caso di defezione italiana. Operazione Achse era il nome in codice del piano per controbattere l’eventuale uscita dell’Italia dalla guerra, neutralizzare le sue forze armate e occupare militarmente la penisola.

L’assenza di un piano organico per la difesa della città e di una conduzione coordinata della resistenza militare all’occupazione tedesca, come anche la fuga di Vittorio Emanuele III assieme al capo del governo e ai vertici militari, portarono a una rapida caduta della Capitale, cui si opposero vanamente e in modo disorganizzato le truppe del Regio Esercito e i civili, privi com’erano di ordini coerenti e di collegamenti, lasciando sul campo circa 1000 caduti.

La foto che accompagna l’articolo ritrae alcuni militari italiani che si apprestano allo scontro con i tedeschi presso Porta San Paolo. Porta San Paolo, che fa parte del complesso delle mura Aureliane, il 10 settembre 1943 fu teatro di uno degli scontri legati alla difesa di Roma. Qui la Divisione Granatieri di Sardegna, dopo aver rifiutato di lasciarsi disarmare dai tedeschi il giorno precedente, diede luogo a furiosi combattimenti, coadiuvata da gruppi di civili.

Qui di seguito riporto un brano tratto da “1943: 25 Luglio – 8 Settembre”, di Ruggero Zangrandi (Feltrinelli Editore, 1964), riguardante quei convulsi giorni che caratterizzarono l’occupazione di Roma:

“Il pomeriggio del 9, Raffaele si trattenne ancora in casa, a buttar giù alcuni appunti, per un discorso che avrebbe dovuto tenere l’indomani. Non si sa come abbia trascorso il resto del pomeriggio: probabilmente vide una persona che gli era molto cara. La sera – le notizie erano divenute più allarmanti – stimò opportuno recarsi in casa di un suo cognato, il giornalista svedese Gunnar Kumlien, in via Margutta, dove trascorse la notte.

[…] Per prima cosa, l’indomani mattina, il ten. Persichetti (dei Granatieri) si portò al Deposito del suo Reggimento, il 1° Granatieri, ed ebbe notizia che la situazione militare, attorno a Roma, s’era molto aggravata: proprio i Granatieri contendevano il passo ai tedeschi dalle parti della Cecchignola e alcuni elementi avevano già dovuto ripiegare verso la Basilica di San Paolo. Raffaele si avviò verso questa località, con un altro sottotenente di complemento, a piedi. Piovigginava. Passò nei pressi del Colosseo, dove già c’era atmosfera di retrovia. Percorse il viale Aventino, truppe con carriaggi e artiglierie attendevano di essere impiegate: quello spettacolo gli diede la sensazione dell’imponenza della battaglia. Ma ancora non sapeva che la battaglia si svolgeva già nella zona di San Paolo.

Giunse all’altezza della Piramide di Caio Cestio (sarà stato mezzogiorno) e qui incontrò il comandante del suo reggimento, colonnello Mario Di Pierro, che dirigeva i combattimenti. Tolse a un soldato morto le giberne e le armi e, cosi, vestito come un garibaldino o un brigante, prese il comando di un plotone di granatieri. Poco lontano di lì, sulla via Ostiense riconobbe il ten. col. Enrico Nisco, che comandava un gruppo di dragoni del “Genova cavalleria”, cui s’erano affiancati alcuni carri leggeri ed alcune camionette dell’8° “Lancieri di Montebello”, al comando del cap. Camillo Sabatini.

Non più di una trentina di cavalleggeri, comandati dal cap. Vannetti e dal ten. Guglielmi, difendevano accanitamente una posizione avanzata sullo stradone privo di ripari, press’a poco all’altezza dei mercati generali; e, dai grandi caseggiati, donne e popolani scendevano a tirar via i feriti e a metterli al coperto nei portoni. Più indietro, un altro plotone di cavalleggeri, al comando del ten. San Just, teneva le alture di San Saba, mescolato a un gruppo di civili e, sulla destra della porta di San Paolo, alcune decine di granatieri e di civili, comandati dal cap. Gasparri, sbarravano le strade del quartiere Testaccio.

Un po’ dopo le 13 la battaglia si intensificò: l’artiglieria tedesca prese a picchiare duro e alcuni elementi della divisione paracadutisti cominciarono ad avanzare sull’Ostiense, addossati alle case, fino a che la fucileria italiana li costrinse ad arretrare. Cadde, in quella scaramuccia, il ten. Guglielmi, colpito da una granata. Il magg. Tallarico e alcuni civili lo portarono, insieme ad altri feriti, nel portone di uno stabile. Accorsero subito le donne della casa, con pentole d’acqua calda, strisce di lenzuola, coperte, alcool, zucchero. Nella breve pausa che seguì, Raffaele telefonò all’amico Tommaso Carini, per raccomandargli di avviare sul posto altri compagni armati. Telefonò dal bar che è all’angolo del viale Aventino e lì Carini avrebbe richiamato: Raffaele lasciò a uno dei camerieri una piantina della zona, con l’indicazione del luogo di raccolta. Poi tornò con i suoi uomini: saranno state le 14.

A quel punto arrivarono, unendosi agli altri difensori di porta San Paolo, i superstiti di un avamposto della “Granatieri” che avevano dovuto ripiegare, con alcuni mezzi corazzati. I mortai tedeschi aumentarono e aggiustarono i tiri: ora i colpi cadevano di là dalle mura. A poca distanza da Raffaele furono colpiti, tra gli altri, il magg. Passeri e il cap. Sabatini del “Montebello”; numerose granate investirono il viale Giotto: una trentina di granatieri e una dozzina di civili furono messi fuori combattimento. Gli androni delle case vicine si riempirono di feriti e di morenti.

Alle 14.30 i quadrupedi del “Genova Cavalleria” vennero fatti spostare sulla via Marmorata, al riparo dai colpi; e il col. Nisco, con gli uomini appiedati, prese posizione nei pressi del muro che circonda la stazione Ostiense. In un punto isolato e scoperto il cap. Vannetti, già ferito a un ginocchio, continuò a brandeggiare una mitragliatrice, insieme al dragone Cavalli, fino a che furono abbattuti entrambi da una raffica. Il dragone Panzacchi tentò di raggiungere l’arma e cadde accanto a loro.
Anche Raffaele, con alcuni granatieri, fece una sortita per trarre in salvo alcuni feriti. Poi tornò ad appostarsi e a dirigere il fuoco della fucileria contro i paracadutisti tedeschi, che avanzavano a sbalzi di dieci, cinque, tre metri. Teneva d’occhio, intanto, sullo sbocco del viale Aventino, il punto di raccolta dove aveva convocato gli amici.

La battaglia ebbe altri alti e bassi, pause di minuti e furiose riprese. Alle 15.10 Raffaele si portò di nuovo al bar e telefonò alla madre, per tranquillizzarla: si scusò di non essere rientrato la notte, la rassicurò che tutto andava bene e le promise di tornare prima di sera. Dovette interrompere più volte il discorso, per tappare il microfono con la mano, perché la madre non si accorgesse degli spari. La madre udì lo stesso i colpi. E non lo vide tornare, la sera.

L’indomani mattina, Il padre dott. Giulio telefonò in casa del col. Di Pierro: gli rispose il cap. Vannutelli e gli riferì che, alle ore 14 del 10 settembre, il comando del 1° Granatieri aveva dovuto trasferirsi da porta San Paolo e che, da quel momento, il colonnello e lui stesso avevano perso di vista il ten. Persichetti. Notizie più recenti il padre di Raffaele poté averle, lo stesso giorno, dal giornalista Attilio Battistini che si era trovato a San Paolo durante tutto il corso della battaglia e, dopo le 14, aveva riconosciuto Persichetti: “Ho visto Raffaele”, disse, “lanciarsi allo scoperto e soccorrere i feriti di viale Giotto, per portarli in un punto più riparato. La sua giacca era macchiata del loro sangue”.

Quella sera, si presentò a casa Persichetti un granatiere in borghese, che si accingeva a lasciar Roma e voleva aver notizie del ten. Persichetti, a fianco del quale aveva combattuto fin verso le 15 del giorno prima. Solo la mattina di lunedì 13 settembre, i familiari appresero il fatto. Narra il padre, che vide la salma di Raffaele, accanto a quelle di altri sei militari, nella sala mortuaria dell’ospedale del Littorio: “Sull’abito borghese indossava le giberne, la baionetta mancava dal fodero, da cui appariva come strappata. Raffaele era spirato per ferite da arma automatica alla regione temporoparietale sinistra e mastoidea destra”.

Era stato massacrato, insomma. Ma era morto bene. Ed era morto bene anche perché non aveva fatto in tempo a conoscere che, nell’ora stessa in cui egli spirava a San Paolo, con la sua baionetta strappata dal fodero, una piccola nave da guerra che si chiamava “Baionetta” gettava le ancore nel porto di Brindisi, dove portava in salvo il re, il principe, il maresciallo capo del governo e l’alto Comando italiano al completo. […]

Qualche volta passiamo per una strada romana, che è come se non esistesse perché fa tutt’uno con piazza di Porta San Paolo e piazzale Ostiense: non c’è un portone, non un numero di telefono. C’è, nei pressi, un piccolo brutto giardino, quasi sommerso nel traffico di tram, autocarri, macchine che transitano senza sosta e di centinaia di persone che corrono sempre, verso le fermate o la stazione da dove partono i treni per Ostia. […] Lì, qualche volta, su una panchina, ci riesce di restar soli con Raffaele a scambiare due parole, a dargli le ultime notizie. Quel posto, che non sembra neppure una strada, si chiama appunto – nessuno lo sa – Via Raffaele Persichetti”.

Precedente WWII: la Battaglia d'Inghilterra Successivo Il bombardamento di Darmstadt