WWII: la battaglia di Bardia

5 Gennaio 1941, Seconda guerra mondiale: finisce la Battaglia di Bardia.

Parte dell’Operazione Compass (nome in codice assegnato dai Britannici all’offensiva sferrata in Africa Settentrionale dalla Western Desert Force contro le forze italiane che erano penetrate in Egitto), la battaglia di Bardia fu combattuta per tre giorni, e terminò proprio il 5 gennaio del 1941.

Bardia è una località della Libia orientale, situata a pochi chilometri dal confine con l’Egitto.

Le forze italiane a difesa della Piazza erano le seguenti:
I Div. CC.NN. «23 Marzo»;
II Div.CC.NN. «28 Ottobre»;
Divisione «Marmarica»;
Divisione «Cirene»;
Resti della Divisione «Catanzaro».

Lo schieramento avversario (Regno Unito e Australia) poteva contare sulla seguente forza:
7a Divisione corazzata;
6a Divisione Australiana;
XVI Brigata di fanteria britannica;
VII Btg. del Royal Tank Regiment;
un battaglione Fucilieri Reali del Northumberland;
Artiglieria di C.A;
due squadroni di cavalleria australiana.

Quella combattuta a Bardia fu la prima battaglia della guerra alla quale prese parte una formazione dell’Esercito Australiano. La 6ª Divisione Australiana, guidata dal generale Iven Mackay, assaltò la fortezza italiana di Bardia assistita dal supporto aeronavale e sotto la copertura del fuoco d’artiglieria. La 16ª Brigata Australiana attaccò all’alba da Ovest, dove le difese erano più deboli. I genieri aprirono dei varchi nel filo spinato, smantellando poi le sponde dei fossati anticarro con picconi e badili. In questo modo permisero alla fanteria e a 23 carri Matilda II, del 7º Reggimento reale carri, di penetrare nella fortezza e catturare tutti i loro obiettivi, inclusi 8000 prigionieri.

La 17ª Brigata di Fanteria Australiana, sfruttando la breccia creata nel perimetro difensivo, proseguì a Sud fino a raggiungere la linea difensiva conosciuta come Switch Line. Questa, insieme alla 16ª Brigata australiana, catturò la cittadina di Bardia, tagliando le fortificazioni nemiche in due. In migliaia furono fatti prigionieri, con la guarnigione italiana che mantenne il controllo solo della parte più a Nord e a Sud della fortezza. Il terzo giorno, la 19ª Brigata avanzò verso Sud da Bardia, supportata dai carri Matilda, ridotti a un gruppo di sei elementi. Tale avanzata permise alla 17ª Brigata di ottenere dei successi, e alle due brigate di ridurre ulteriormente il settore meridionale della fortezza. Nel frattempo, la guarnigione italiana nel Nord si arrese alla 16ª Brigata e al Gruppo di supporto della 7ª Divisione corazzata britannica. In tutto, furono fatti circa 36000 prigionieri italiani.

La vittoria a Bardia permise alle Forze Alleate di continuare l’avanzata in Libia e di catturare quasi tutta la Cirenaica. Ciò portò all’intervento Tedesco in Nordafrica, il quale cambiò la natura del conflitto in quel teatro bellico. La battaglia accrebbe comunque la reputazione dell’esercito australiano.

Di seguiti un estratto del libro di Eno Santecchi, “Così sono trascorsi gli anni migliori”:

“Un pomeriggio, verso le ore 16.00, uno degli ultimi giorni dell’anno 1940, venne in visita il generale Bergonzoli. Riunì gli ufficiali nella tenda del capitano e disse loro in breve: ‘Le possibilità di resistere sono scarsissime, non c’è da sperare in aiuti esterni. Alla prossima offensiva nemica, entro qualche giorno, finiremo tutti prigionieri’. Per noi soldati significava: ‘Il generale Graziani comandante superiore in Africa Settentrionale ci ha abbandonati al nostro destino’. Dalle comunicazioni frenetiche degli ultimi giorni Alfredo, il centralinista, aveva già avuto sentore dell’imminente attacco finale del nemico. Dopo un assedio di circa 25 giorni, gli Inglesi decisero di chiudere la partita con noi.

Il mattino presto del 3 gennaio 1941 si scatenò la violenta offensiva nemica. Nel corso del bombardamento aereo della R.A.F., un artigliere vicino a me si riparò velocemente dietro un mucchio di sacchetti di sabbia, mentre io non lo seguii; una bomba esplose a distanza ravvicinata. Fui sepolto quasi completamente dal terriccio sollevato dalla fortissima deflagrazione, forse ciò mi valse da scudo contro le schegge. Non era il momento di trastullarsi, mi tirai fuori, constatai di non aver riportato lesioni, ringraziai il Signore di avermi salvato e ritornai in fretta al mio posto di combattimento. Subito non avvertii nulla, ma il mio organismo ne risentì in seguito. I mezzi blindati nemici si avvicinarono minacciosamente. Ai nostri cannoni non mancava la potenza necessaria per fermarne qualcuno, ma essi non potevano essere usati ad alzo zero, bensì solo con una certa traiettoria. Ormai i corazzati erano troppo vicini e nessuno aveva pensato di dotarci d’idonee armi anticarro.

Con il fisico segnato dai lunghi giorni d’assedio e dalla battaglia, i visi anneriti, le divise logore e impolverate con una miscela in parti uguali di polvere da sparo e sabbia sollevata dalle esplosioni, cademmo prigionieri degli Australiani. I quali, con i mitragliatori puntati, ci requisirono le armi portatili: moschetti e pistole, e ci fecero sedere per terra, poi ci perquisirono. Durante tale operazione, alcuni oggetti di valore come orologi e penne scomparvero definitivamente. Il nostro capitano, che parlava un po’ l’inglese, chiese l’autorizzazione a farci indossare vestiti e scarpe migliori, poi ci salutò commosso: gli ufficiali erano radunati a parte. Quei giorni caddero prigionieri circa 40000 soldati italiani. Appiedati ed incolonnati, fummo avviati in direzione delle linee inglesi.

Un proiettile di cannone proveniente dalle nostre batterie centrò per errore la colonna: fu una strage, 7-8 di noi furono fatti a brandelli, terminarono le loro sventure in quella sabbia, ci furono anche parecchi feriti. Un soldato inglese ci disse in italiano che, a causa della mancanza di mezzi, loro non erano in grado di soccorrere i feriti anche se rischiavano di morire dissanguati. Soccorremmo i nostri colleghi come meglio potemmo. Eravamo sopravvissuti a mesi di guerra, all’assedio e alla battaglia, ci aspettava una dura prigionia non sapevamo quanto lunga e dove ci avrebbero portato. La speranza di riabbracciare i nostri cari e di rivedere l’amata Italia però era come un fuoco sotto la cenere”.

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