Unione senza appartenenza

Secondo unanime definizione, apparentemente più di facciata che realistica (stando ai più recenti avvenimenti), l’Unione Europea dovrebbe identificare un legame profondo tra le 28 parti contraenti, funzionale ad una cooperazione tanto economica quanto politica, che faccia capo ad una serie di istituzioni a carattere sovranazionale, il cui compito dovrebbe esser principalmente quello di coordinare le attività delle diverse Nazioni per realizzarne l’interesse comune. Una collaborazione che dovrebbe avvalersi, in termini più utopistici che pragmatici, di un fondamento ideologico comune, che porti i vari membri a ritrovarsi spontaneamente sul medesimo percorso, almeno nella maggior parte delle situazioni. Il percorso giuridico intrapreso nel corso del suo sviluppo avrebbe fatto presupporre la prossima instaurazione di una vera e propria federazione dal punto di vista di funzioni e prerogative, con il progressivo trasferimento di poteri dagli Stati membri agli organismi comunitari; tuttavia, le recenti sfide che stanno mettendo a dura prova la stabilità e la collaborazione della comunità internazionale, sembrano aver fatto regredire ogni tipo di tentativo di proseguire nella strada intrapresa, portando diversi Stati nazionali a chiudersi in un conservatorismo di nome (dal punto di vista dei valori) e di fatto (con la chiusura delle frontiere). Insomma, questo organismo sovranazionale sembra, almeno per ora, non reggere alle forti pressioni esterne con cui è costretta a confrontarsi, soprattutto a causa di entità territoriali che sembrano preferire una gestione autonoma di queste emergenze che stanno proliferando quasi a dismisura, nei tempi recenti.

Già con la crisi economica della Grecia (che è parte della crisi del debito sovrano europeo, un meccanismo recessivo innescato dalla bolla immobiliare che vide come primo protagonista gli Stati Uniti d’America nel 2007), iniziata ufficialmente quando il primo ministro George Papandreou rivelò pubblicamente, nell’autunno 2009, che i bilanci economici inviati dai precedenti governi greci all’Unione europea erano stati falsificati con l’obiettivo di garantire l’ingresso della Grecia nella Zona Euro, innescando un legame conflittuale con la cancelliera tedesca Angela Merkel che non sembra avere facile risoluzione, l’unione dell’Europa sembrò alla deriva: unita dal punto di vista economico, ma governata dalla forza trainante della Germania, tuttavia assolutamente incapace di affrontare una sfida ancora più importante, se vogliamo, come quella delle migrazioni.
Proprio sulla questione migratoria l’Europa svanisce di colpo, e molti paesi sembrano persino ritrovare il proprio orgoglio nazionale, impegnandosi in una vera e propria guerra, erigendo difese che si rifanno a delle mura contornate da filo spinato, come fosse necessario evitare il pericolo di ‘invasione’: un quadro che sembra richiamare inevitabilmente epoche e situazioni che sembravano ormai superate ma, a ben guardare, l’uomo sembra non imparare mai dagli errori passati. Un paese ex sovietico come l’Ungheria, che oggi afferma di aver ritrovato democrazia e libertà, innalza ora un recinto di ben 175 chilometri lungo i suoi confini al fine di impedire l’arrivo di migranti, molti dei quali sono già in seno all’Unione. Pensano di fare altrettanto Grecia, Bulgaria e Turchia. In tal senso, se l’Accordo di Schengen (lo spazio Schengen è una zona di libera circolazione per le persone, che prevede l’abolizione dei controlli alle frontiere, salvo circostanze eccezionali) dovesse saltare, verrebbe logicamente meno un pilastro dell’Unione economica e monetaria. L’obiettivo UE dovrebbe esser quello di salvare la libera circolazione al proprio interno, magari rafforzando i confini esterni grazie all’attività FRONTEX (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea), con misure di contrasto in mare e in terra, tentando di risolvere il problema all’origine, con una più proficua collaborazione tra le forze di polizia nazionali, creando una sorta di corpo di guardie europeo.

Altra sfida non da poco è quella fornita dalla possibilità (sempre meno remota) che la Gran Bretagna esca dall’Unione Europea, se certe imposizioni non dovessero esser soddisfatte. Catastrofiche sarebbero le conseguenze sia per la Gran Bretagna, il cui Pil, secondo stime recenti, crollerebbe in poco tempo del 2,25% anche per la mancanza di investimenti diretti sul Paese. Anche gli altri Paesi ne risentirebbero. La Germania (che è tra il principale partner commerciale europeo della Gran Bretagna) perderebbe tra lo 0,3% e il 2% del Pil, pari a un calo di reddito pro capite tra i 100 e i 700 euro l’anno a persona. A rimetterci di più sarebbero, nell’ordine, l’Irlanda, il Lussemburgo, il Belgio, la Svezia, Malta e Cipro. I bilanci degli altri Paesi sarebbero poi gravati da un maggiore contributo al budget europeo, per sopperire alla mancanza della Gran Bretagna. L’impatto sull’Italia può solo essere immaginato. Dal ramo alimentare a quello della difesa e della ricerca spaziale, sono molte le aziende italiane che subirebbero un contraccolpo dalla Brexit, in quanto mantengono scambi frequenti. Tra queste: Finmeccanica ed Eni, Merloni e Calzedonia, Pirelli e Ferrero.

Da non dimenticare che tutte queste divisioni interne al nostro continente si stanno verificando in un contesto di estrema emergenza e di guerra ormai dichiarata dal sedicente Stato islamico alla nostra cultura, prima ancora che al nostro territorio. Una conflitto difficilmente gestibile, in cui non vi è unità di intenti sulle modalità di azioni da poter perseguire. Questa incertezza deriva dal fatto che, logicamente, la guerra al terrorismo non si rifà ad alcuna categoria tradizionale di azione, a nessun catalogo standard a cui poter attingere. Il nemico è ovunque, potrebbe agire in qualsiasi momento, la sola minaccia che potrebbe succedere qualcosa di spettacolarmente terrificante costituisce per loro già una sostanziale vittoria. Con il terrorismo, la popolazione civile diventa lo strumento manipolabile nelle mani dell’attaccante, specie dal punto di vista morale. Non mira a colpire direttamente il nemico (l’esercito), ma si sfoga contro la popolazione inerme. La sua è una struttura triangolare (soggetto che compie l’atto terroristico – soggetto vittima dell’attacco – terzo destinatario dell’intimidazione), non lineare, caratterizzata da una impersonalità di sorta. Non si concentra su categorie di individui o di luoghi specifiche, ma tutti e tutto sono degli obiettivi possibili. E ancora, risultano facilmente reperibili gli strumenti per compiere elle attività finalizzate al terrore, tanto per attori statali, tanto per attori non statali. Il terrorismo è l’eccezione più specifica e giuridicamente definibile alla guerra inter-statale, non rientra nella guerra legale (disciplinata dal Diritto Internazionale) tra Stati in alcun modo: insomma, presuppone l’uscita della violenza dall’orizzonte “statocentrico”. Siamo giunti dunque a combattere una vera e propria “guerra ineguale”, che non trova una definizione condivisa tra le parti che vi partecipano, che hanno strumenti e abilità diverse a disposizione. Il terrorista è un partigiano senza territorio, caratterizzato da una mobilità del campo di battaglia; non agisce dietro le linee, la sua peculiarità principale è quella di spostare la guerra dove e quando gli Stati non la praticano. L’obiettivo dei terroristi è la contaminazione: essi fanno irrompere la guerra in uno spazio normale, in modo tale che la normalità non sia più possibile per nessuno. Tra Stati e terroristi non ci potranno mai essere delle regole condivise, ed è proprio per questo che questa sfida lanciata dall’Isis rimane la sfida più complicata da affrontare, soprattutto per un continente lacerato da interessi particolari, che non sembra riuscire in alcun modo a ragionare secondo termini unanimi e condivisi, tesi al pensiero comune, tipici di una reale Unione.

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