Una rivoluzione senza ideologia

Interessante la posizione assunta da Daniel Joseph Boorstin in merito alla rivoluzione americana, che potete trovare integralmente nel suo testo “The Genius of American Politics”.
Boorstin è stato uno storico, docente e saggista statunitense, nominato Librarian of Congress (onorificenza di cui vengono insigniti i responsabili della Library of Congress, la biblioteca nazionale degli Stati Uniti) per il Congresso degli Stati Uniti d’America dal 1975 al 1987 dal presidente Gerald Ford. Ricevette il Premio Pulitzer per la storia nel 1974 grazie all’opera The Americans: The Democratic Experience.

La storiografia ha sempre indicato uno stretto rapporto tra la rivoluzione americana e le rivoluzioni europee del Sette e dell’Ottocento, facendone risalire le motivazioni alle idee politiche e sociali dell’Illuminismo. Recenti studiosi statunitensi hanno tuttavia sottoposto a revisione tutta la questione, giungendo alla rivoluzionaria conclusione che la rivoluzione dei coloni inglesi d’America ha una propria originalità, delle peculiarità che la distinguerebbero dalle rivoluzioni europee. A loro giudizio v’è una profonda differenza tra la rivoluzione americana e quella francese del 1789, tanto per dire.
La prima sarebbe, secondo la loro opinione, una rivoluzione di tipo legalistico, che muove dai principi stessi del costituzionalismo inglese, dai diritti e dai privilegi consacrati sulle Carte inglesi (niente tassazione senza rappresentazione, ad esempio). Una rivoluzione conservatrice, dunque, laddove quella francese, che si rispecchia nella ben nota formula libertà, uguaglianza, fratellanza, stabilisce non già quali debbano essere i diritti e i doveri del cittadino francese, ma quali i diritti e i doveri dell’umanità in generale; tende, perciò, piuttosto all’umana rigenerazione che a riformare esclusivamente la Francia.

Di fatto, come rileva Boorstin, la rivoluzione americana non produsse un solo trattato importante di teoria politica e lo stesso Jefferson, che pure viene considerato il filosofo che ha guidato la rivoluzione, non nutrì poi grande interesse per la speculazione politico-sociale. Insomma, l’interesse filosofico di Jefferson per la politica allo scoppio della Rivoluzione era l’entusiasmo e l’attaccamento di un uomo di legge scaltro e progressista per i diritti tradizionali degli Inglesi.
Il giudizio di Boorstin ha pesato fortemente sulla storiografia americana, anche se altri storici non meno autorevoli si discostano dalla sua interpretazione, rivendicando l’afflusso determinante del pensiero illuministico e reinserendo con ciò la rivoluzione americana nel circolo vitale della storia europea. Ad esempio, Bailyn sosteneva che gli Americani erano profondamente consapevoli di essere degli innovatori, di contribuire al progresso del genere umano nel suo complesso. Essi erano convinti di avere avuto successo nel loro sforzo di modificare la situazione, per farla corrispondere agli ideali illuministici, mediante i quali essi avevano iniziato una nuova era della storia umana. Ed erano confortati in questo dall’opinione di aggiornati pensatori d’Europa.

Secondo Boorstin, gli Americani sono soliti pensare alla Rivoluzione come al periodo aureo per eccellenza del pensiero politico americano, non accorgendosi che in quel contesto non si produsse in America un solo trattato di rilevanza internazionale di teoria politica. Uomini come Jefferson e Franklin dagli interessi universali, attivi e straordinariamente felici nelle loro realizzazioni politiche, non produssero poi molto a livello teorico, a ben guardare. Lo studioso che avvicina per la prima volta la letteratura della Rivoluzione, sempre secondo quando detto da Boorstin, potrebbe rimanere deluso dal tono grigio e legalistico di ciò che trova dinanzi i propri occhi. Anche se la Rivoluzione americana si verificò in un momento in cui tutta l’Europa non mancavano la speculazione filosofica e importanti trattati, essa non fu né particolarmente ricca né particolarmente originale nel suo apparato intellettuale.

Il tipico slogan della Rivoluzione era: niente tassazione senza rappresentanza. Parole un po’ troppo legalistiche per infiammare il cuore del popolo, a ben guardare. Niente a che vedere con il principio “libertà, uguaglianza, fratellanza” della Rivoluzione francese e con quello “pace, pane e terra” della Rivoluzione russa. Sembra come che il principale oggetto in contestazione della Rivoluzione americana fosse la natura della costituzione dell’Impero inglese, ovvero qualcosa di squisitamente giuridico. La Dichiarazione d’Indipendenza americana, sempre secondo le idee di Boorstin, è essenzialmente un elenco di specifiche pretese storiche, in quanto essa non sembra diretta alla rigenerazione, ma esclusivamente alle opinioni dell’umanità. Strettamente legata al tempo e al luogo. Anche prendendo in considerazione il preambolo o i due primi paragrafi, che costituiscono naturalmente la parte più generale del documento, considerandoli anche separatamente, ci si accorgerebbe immediatamente che suonano come una sorta di riedizione ridotta della teoria whig della Rivoluzione inglese del 1688. Insomma, la Rivoluzione americana trasse la sua ispirazione dalle lotte del Parlamento del XVII secolo, e la filosofia della Dichiarazione non fu presa dai Francesi. Era una buona vecchia dottrina inglese riformulata per le esigenze di una nuova situazione. Addirittura alcuni storici arrivarono a sostenere che la Rivoluzione inglese trionfò due volte, una volta in Inghilterra, una volta in America. Naturalmente questa appare come una vera e propria estremizzazione del concetto.

I rimanenti tre quarti del documento sono tecnici e legalistici.
Più si rilegge la Dichiarazione nel contesto, più essa si rivela un documento di relazioni giuridiche con l’Impero, invece che esser un esempio di elevata filosofia politica. Il desiderio di rimanere fedeli ai principi base del costituzionalismo inglese spiega perché il documento fosse diretto contro il Re, nonostante le lagnanze fossero rivolte contro il Parlamento, all’evidenza dei fatti. Jefferson è stato generalmente considerato il filosofo politico guida della Rivoluzione, ed era il principale autore della Dichiarazione d’Indipendenza, l’acme dell’astratto filosofare dei rivoluzionari. Poiché si ritiene che egli fosse all’avanguardia del pensiero rivoluzionario, prove di conservatorismo e di legalismo nel pensiero di Jefferson restano particolarmente significative. Non possiamo non rimanere colpiti dalla scarsità negli scritti di Jefferson di quegli anni di tutto ciò che si potrebbe definire un’originale ricerca di teoria politica, ma anche del contesto legalistico del pensiero dello stesso. Gli Stati Uniti nascevano in un’atmosfera di dispute giuridiche più che filosofiche. A parte il materiale tecnico-giuridico connesso all’attività professionale di Jefferson, anche i frammenti politici sono di gusto più giuridico che filosofico.

In conclusione, l’interesse filosofico di Jefferson per la politica allo scoppio della Rivoluzione, secondo Boorstin, era l’entusiasmo e l’attaccamento di un saggio uomo di legge, progressista e intelligente, per i diritti tradizionali degli Inglesi. I progetti di riforma giuridica da lui promossi, a ben guardare rimasero semplicemente dei perfezionamenti della common law.

Uno spunto di riflessione alquanto interessante e stimolante, non c’è che dire…

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