L’opera dell’Assemblea costituente

Come visto fino ad ora, il clima in cui si svolsero i lavori per l’elaborazione delle nuova Costituzione fu quantomeno drammatico. Il dibattito dall’Assemblea traboccava nella città; l’opinione pubblica era tenuta desta dall’opera dei clubs (tra cui ricordiamo quello moderato dei ‘Foglianti’, guidato da La Fayette, ora vicepresidente dell’Assemblea; quello dei ‘Giacobini’, più avanzato, costituito da gruppi della borghesia medio-alta ma sensibile alle esigenze dell’alleanza con le masse popolari, tra cui si distingueva un giovane avvocato di nome Maximilien Robespierre, che era stato deputato agli Stati Generali e che alla Costituente sedeva a sinistra; e quello ancor più radicale, il club dei ‘Cordiglieri’, che raccoglieva consensi tra i ceti medi-inferiori e che proponeva radicali riforme economiche e sociali), dei circoli politici aperti ai cittadini nei quali si discutevano le questioni di volta in volta affrontate in aula dai rappresentanti.

Questi, invece, i tre grandi raggruppamenti interni all’Assemblea: gli aristocratici sulla destra, i monarchici al centro, i ‘patrioti’ a sinistra.
L’Assemblea costituente svolse un lavoro a dir poco grandioso, che prese corpo nella Costituzione dell’anno 1791. I deputati procedettero al nuovo ordinamento dello Stato monarchico-costituzionale. Ispirandosi ai principi di Montesquieu sulla divisione dei poteri, essi assegnarono al re e ai suoi ministri il potere esecutivo, pur sottoponendolo al controllo dell’Assemblea legislativa, da eleggersi ogni due anni, alla quale riservarono il compito preminente della legislazione.
Si riconobbe al re il diritto di opporre alle deliberazioni dell’Assemblea un veto sospensivo, ma contro tale veto eventuale l’Assemblea avrebbe potuto appellarsi direttamente al popolo.
Il potere giudiziario fu affidato ad un corpo di magistrati, non più di nomina regia ma eletti nelle assemblee locali, quindi espressione della sovranità popolare.
In contrasto con la Dichiarazione dei diritti i costituenti vollero sbarrare il passo alle classi economicamente inferiori riservando il diritto di voto a coloro che erano forniti di un certo censo e reddito, per cui i cittadini francesi maschi furono di fatto distinti in due categorie ben inquadrate: attivi (4 milioni circa), che fruivano di questo diritto; passivi (3 milioni circa), che ne erano privi. Analogamente le cariche amministrative nei dipartimenti, cantoni e comuni furono riservate ai soli ceti abbienti. Sembrava che il potere fosse ormai in mano della borghesia censitaria, sotto un’apparenza monarchica.

Nel campo amministrativo l’Assemblea costituente volle dare a tutto il paese un ordinamento che corrispondesse alle attese di un’opinione pubblica che reclamava larghe autonomie locali. La Francia fu perciò divisa in 83 dipartimenti, i dipartimenti in cantoni, i cantoni in comuni. I poteri dei comuni e degli organi periferici si fecero amplissimi, per cui venne a mancare tra il centro e la periferia ogni effettivo legame, ed ogni dipartimento finì per costituire una piccola repubblica. All’accentramento monarchico succedeva di fatto il decentramento.

Nel campo finanziario l’Assemblea costituente cercò di risanare il dissesto in cui la Francia era precipitata. Per trovare una via d’uscita si deliberò la soppressione degli Ordini monastici e l’incameramento dei beni del clero. Tale misura non era dettata solo da spirito anticlericale o laicista, ma dalla necessità di far fronte alla bancarotta imminente. Incamerando i beni ecclesiastici, considerati beni nazionali, lo Stato si assunse le spese del culto e l’onere degli stipendi da corrispondere ai membri del clero secolare. Si giunse così a quella che fu detta ‘Costituzione civile del clero’ (12 luglio 1790), che tendeva a trasformare vescovi e curati in funzionari dello Stato, obbligandoli a prestare giuramento di fedeltà alla monarchia, alla nazione, alla Costituzione. Il provvedimento, avversato dal re, solennemente condannato dal papa Pio VI, gettò la Francia in una grossissima crisi religiosa. La maggior parte del clero secolare rifiutò di prestare il giuramento richiesto. Ciò portò allo scisma: da una parte i cosiddetti preti giurati o costituzionali, dall’altra i non giurati o refrattari, che vennero allontanati a forza dalle parrocchie, ma conservarono per lo più la fiducia dei loro fedeli. Tale crisi ebbe importanti ripercussioni anche sul piano politico, in quanto le forze controrivoluzionarie trovarono appoggi insperati tra le masse cattoliche rimaste fedeli ai loro parroci.
Sul piano finanziario l’incameramento dei beni ecclesiastici migliorò la situazione, pur non sanando il deficit per intero, in quanto lo Stato, in attesa di mettere in vendita questi beni, poté procedere all’emissione di una speciale cartamoneta, gli ‘assegnati’, garantita dal valore stesso delle terre espropriate. Accadde però che l’emissione incontrollata degli assegnati portò alla loro progressiva svalutazione, con grave danno ai ceti meno abbienti incapaci di far fronte all’incalzante rialzo dei prezzi. I beni nazionali vennero successivamente venduti, determinando un vasto trapasso di proprietà, che legò indissolubilmente alla Rivoluzione tutti quelli che avevano beneficiato di questa operazione, in gran parte borghesi e contadini agiati. Si avviò così la formazione di un nuovo ceto di proprietari agricoli, che diverranno convinti sostenitori del nuovo ordine.

Precedente L'invasione di Versailles Successivo 20 giugno 1971: la fuga del re