Lo statuto del regno di Sardegna (Statuto albertino)

“Bisognava giungere alle tempestose vicende del 1848 perché nel nostro paese si potesse finalmente parlare di una costituzione veramente vitale. Era ‘l’anno dei portenti’, nel quale apparvero quasi simultaneamente costituzioni in tutta la penisola: la Costituzione del regno delle Due Sicilie, lo Statuto fondamentale del governo temporale degli Stati della Chiesa, lo Statuto del granducato di Toscana, lo Statuto del regno di Sardegna […] Una sola Carta costituzionale era destinata a sopravvivere al grande naufragio di quegli anni: lo Statuto albertino. Il testo fu frettolosamente redatto in poche sedute: e per intero si ispirava, senza originalità propria, alle costituzioni francesi del 1814 e del 1830 e a quella belga del 1831; specialmente al secondo di questi tre modelli. Era una carta octroyée. […] Eppure questa Carta costituzionale avrebbe retto le sorti del Regno di Sardegna e poi del regno d’Italia fino al fascismo: dunque per poco meno di ottant’anni”.

Questo scriveva Alessandro Galante Garrone, storico, scrittore e magistrato italiano.

Di fatto, anche durante il ventennio fascista lo Statuto albertino continuò, almeno formalmente, ad avere vigore. Si continuò imperterriti a giurare di essere fedeli al re e ai suoi Reali Successori, e di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato.

Nello Statuto albertino si trovano sancite tutte le libertà tipiche del costituzionalismo ottocentesco.: uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (Art. 24), libertà individuale (Art. 26), inviolabilità del domicilio (Art. 27), libertà di stampa (Art. 28), di associazione (Art. 32) diritto di proprietà (Art. 29). Il primo articolo, nonostante predicasse la tolleranza degli altri culti, proclamava, come nell’Antico Regime, il Cattolicesimo come sola religione ufficiale dello Stato. Circa la forma di governo, lo Statuto prevedeva un governo monarchico rappresentativo, quindi il potere diviso tra re e nazione, il potere legislativo esercitato dal re e dalle due Camere, quello esecutivo solo dal re tramite i ministri da lui nominati. La giustizia è emendata dal re e amministrata in suo nome dai magistrati da lui stesso nominati.

Parrebbe esercizio facile, quello di rilevare i limiti dello Statuto. Al re venivano concessi ampi poteri, e gli stessi ministri erano responsabili di fronte a lui, e non al Parlamento. Ma sono i limiti oggettivi di un sistema strettamente costituzionale e non ancora parlamentare. Fu l’opera di Cavour, dei ministri della Destra, di Depretis e di Giolitti a superare tali limiti e a dar vita, al di là di essi, a un regime parlamentare a tutti gli effetti.

Precedente Una nuova rete ferroviaria per un'Italia moderna Successivo Le nuove campagne italiane: il "grande affitto"