L’Impresa di Fiume

L’Impresa di Fiume consistette nella ribellione di alcuni reparti del Regio Esercito (circa 2600 uomini tra fanteria e artiglieria) al fine di occupare la città adriatica di Fiume, contesa tra l’Italia e il neonato Regno di Jugoslavia. Organizzata da un fronte politico a prevalenza nazionalista e guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, la spedizione raggiunse Fiume il 12 settembre 1919, proclamandone l’annessione al Regno d’Italia.

Già prima della formazione del ministero Nitti si era avuto sentore di un progetto militarista, appoggiato da nazionalisti e fascisti, volto ad imporre una effettiva dittatura militare. Di tale progetto erano giunte al governo numerose segnalazioni tra la fine di maggio e i primi di giugno. Dopo la formazione del ministero Nitti, i propositi sovversivi assunsero carattere pubblico. L’intensa opera di propaganda contro il governo e le istituzioni, che proseguiva ininterrottamente in tutta la stampa nazionalista e fascista, mantenne vivo uno stato di fermento che preparò il terreno a ogni possibile avventura. Questo panorama costituì la premessa di quello che viene ricordato come il momento più alto di sedizione della storia dell’Esercito Italiano.

L’Adriatico era sempre stato molto a cuore a D’Annunzio che, a guerra conclusa, si presentò come il più appassionato ed autorevole sostenitore di un Imperialismo Adriatico. Con la fine della Grande Guerra, l’Impero asburgico si era dissolto e al suo posto era sorto un nuovo gruppo di nazioni. I fiumani che negli anni precedenti la dissoluzione dell’Impero avevano affermato il proprio diritto all’autodeterminazione ora potevano sperare che le loro aspirazioni trovassero ascolto benevolo tra gli alleati vittoriosi; in realtà non fu così e Fiume si trovò di fronte al suo vecchio nemico, i Croati.

Nell’immediato, il Consiglio nazionale italiano di Fiume proclamò la propria intenzione di resistere ai croati, annunciando che Fiume era da quel momento unita alla madrepatria, l’Italia. Gli elementi filo-italiani si procurarono una gran quantità di fucili e pistole raccolti durante la guerra, mentre affluivano sempre più numerose truppe serbe e croate, così che il Consiglio nazionale cercò di ottenere l’aiuto dell’esercito italiano. Poiché le strade erano bloccate da truppe di ogni genere, esso decise allora d’inviare due diversi gruppi di uomini (noti più tardi nella leggenda di Fiume come gli “Argonauti”) su piccole imbarcazioni a Venezia, nel tentativo di assicurarsi l’appoggio della Marina italiana.

La missione degli Argonauti ebbe successo, e l’ammiraglio Thaon de Revel, ascoltata la richiesta fiumana, telegrafò a Roma per istruzioni, facendo presenti due buone ragioni per intervenire in difesa degli elementi italiani di Fiume: il fatto che cittadini di indubbia origine italiana si sentissero minacciati da elementi ostili, e l’esistenza nel porto di numerose ed eccellenti navi che, qualora l’Italia si fosse assicurata il controllo della zona, sarebbero potute diventare preda bellica.

Una nave da guerra italiana entrò il 4 novembre 1918 nel porto di Fiume; tuttavia, come dimostreranno gli eventi successivi, il governo italiano era sì interessato al controllo della città, ma non era disposto a rischiare, per ottenerlo, conflitti diretti con i suoi alleati di guerra ( i francesi, protettori del nuovo stato iugoslavo, sostenevano la legittimità della richiesta che Fiume fosse iugoslava). Col progredire delle trattative a Parigi, divenne sempre più chiaro che l’Italia era ormai coinvolta in una nuova lotta con i suoi antichi alleati per la conquista della città come bottino legittimo della vittoria. I mesi successivi all’armistizio furono causa di profonde frustrazioni in Italia, e fecero sentire il loro peso specialmente su chi era stato più direttamente impegnato nella guerra, i reduci, che svolsero un ruolo fondamentale nell’Impresa Dannunziana. La collaborazione più significativa venne a D’Annunzio dai militari, i quali si mostrarono sin da subito favorevoli a un’azione decisa diretta a cacciare le truppe alleate delle forze d’occupazione a Fiume e a proclamare l’annessione della città all’Italia. L’idea di una conquista armata di Fiume era molto diffusa già alla fine della primavera del 1919, con D’Annunzio che non era affatto l’unico candidato al comando della spedizione.

Nel momento in cui si consacrò il mito della “vittoria mutilata”, il programma dannunziano divenne oggetto di pubblica esaltazione e suscitò il fuoco della passione popolare. Proprio in quei giorni apparve in piena luce come la causa di Fiume rappresentasse il punto di maggior accordo del sentimento nazionale italiano; gli italiani concordarono quasi all’unanimità sul fatto che Fiume dovesse appartenergli. L’araldo di questa reazione patriottica, la voce di questo sentimento offeso che si rifiutava di accettare l’ingiusta umiliazione e minacciava di riprendere le armi invocando il concorso di tutto il partito della guerra per vendicare la vittoria mutilata, fu Gabriele D’Annunzio. Inoltre, con la leggenda delle sue imprese militari, l’uomo godeva dopo la guerra della considerazione dovuta a un eroe nazionale. Questo suo particolare carattere di poeta-soldato conferiva a D’Annunzio uno straordinario prestigio, e faceva sì che da parte nazionalista, sin dalla fine della guerra, si fosse guardato a lui come a un maestro capace di guidare gli italiani a conoscere la verità nazionale e ad attuare la più giusta e la più luminosa potenza dell’Italia.

Fiume divenne l’obiettivo prevalente , se non esclusivo, di ogni progetto d’azione; ciò si dovette soprattutto all’opera degli stessi fiumani, i quali si mostrarono decisi a difendere la loro italianità. Fiume aveva effettivamente nella maggioranza della sua popolazione titoli sufficienti per reclamare di essere assegnata all’Italia. L’impresa fu decisa a Venezia tra il 6 e il 7 settembre. L’8 settembre D’Annunzio, dopo aver preso gli ultimi accordi con i Granatieri di Sardegna (i quali erano diventati il simbolo della liberazione di Fiume perché, essendo arrivati nella città il 17 novembre dell’anno precedente, erano stati i primi soldati a partecipare alla vita cittadina e finirono per diventare il simbolo della volontà italiana di conquistarla), fissò la data della partenza dalla cittadina veneta di Ronchi per la notte dall’11 al 12 settembre. All’alba di venerdì 12 settembre, sugli autocarri prelevati all’autoparco di Palmanova, i granatieri del maggiore Reina, guidati da Gabriele D’Annunzio, lasciavano Ronchi dirigendosi verso Fiume. Sulla lunga strada polverosa, attraverso tutto il Carso, la marcia di D’Annunzio non trovò ostacoli. Le truppe che la colonna via via incontrava, i reparti che avrebbero dovuto impedirne il passaggio, quando non si univano ai granatieri ingrossando le forze dannunziane, facevano ala dando via libera e bene augurando al successo dell’impresa. Ordini di opporre resistenza armata certamente non vi furono e, al contrario, molte di quelle truppe erano già state guadagnate alla causa di D’Annunzio nei giorni precedenti. Alle ore 11,45 D’Annunzio entra in Fiume accolto come un trionfatore. Il giorno seguente, alle ore 12, poco prima di far partenza con tutto il suo stato maggiore, il generale Pittaluga dichiarava formalmente sciolto il corpo di occupazione inter-alleato di Fiume di cui egli aveva il comando, e tutto il potere rimaneva di fatto nelle mani di Gabriele D’Annunzio.

Quindi, quando D’Annunzio entrò a Fiume alla testa di un’imponente colonna corazzata composta da autocarri, automobili, carri armati e circa 2250 uomini tra granatieri, artiglieri, Arditi e fanti, non un solo colpo fu sparato per tentare di arrestare l’avanzata. La defezione più famosa in favore di D’Annunzio fu quella di un folto gruppo di Arditi al comando del generale Zoppi. I decantati eroi della grande guerra, che avevano ricevuto l’ordine di sparare sul poeta se si fosse rifiutato di voltare le spalle a Fiume, scelsero di obbedire non al loro generale, ma al loro alleato spirituale, il capitano Host-Venturi, che aveva chiesto loro di andare incontro alle truppe in marcia e di scortarle a Fiume. Entrate le truppe a Fiume, l’intera città esplose in festeggiamenti che durarono tutta la giornata. D’Annunzio si affacciò dal balcone dell’hotel in cui risedeva, e annunciò ai cittadini in festa che il loro sogno era finalmente divenuto realtà: Fiume era annessa all’Italia. Quando Nitti ricevette la notizia dell’occupazione di Fiume esplose in una clamorosa scenata, battendo il pugno sul tavolo e mostrandosi attonito e incredulo. E’ chiaro che non poteva essere rimasto sorpreso dell’azione di D’Annunzio; perché allora si lasciò andare a un atteggiamento del genere? La risposta è che Nitti rimase sbalordito, non tanto per il tentativo di D’Annunzio di impossessarsi di Fiume, ma piuttosto per il successo che aveva arriso alla difficile impresa. Nitti non aveva creduto che le sue truppe avrebbero rifiutato di obbedire agli ordini ricevuti, e il successo della marcia su Fiume dimostrava sino a che punto l’Italia era caduta vittima di un esercito completamente infedele.

Senza la minima ombra di dubbio, l’aspetto più grave dell’impresa di Fiume non fu nella minaccia immediata contro il governo e nella possibilità di provocarne la caduta, ma la sedizione militare. Divenne evidente che Nitti si era trovato di fronte a un atto di sedizione all’interno delle Forze Armate, e non vi era certezza che fosse una situazione circoscritta all’evento. In questa situazione era difficile per il governo italiano sperare di risolvere la crisi con un intervento armato, in quanto le truppe italiane avrebbero certamente disertato a favore di D’Annunzio. Addirittura il poeta si trovò costretto a lanciare un appello ai soldati italiani perché non disertassero più per Fiume, dato che non era in grado di occuparsi di tanti uomini che cercavano di raggiungerlo. Alla fine dell’autunno erano al suo comando circa novemila soldati e se lo avesse desiderato il numero si sarebbe potuto raddoppiare; anche gli ufficiali erano aumentati. Nella realtà dei fatti, D’Annunzio ebbe ragione nell’affermare che la sua impresa era l’impresa di tutto l’esercito italiano. Non esistono dubbi sulla complicità delle forze militari nella marcia di Ronchi: il sentimento predominante all’interno dell’esercito era di aperta solidarietà per D’Annunzio e di manifestata ostilità per il governo in carica, lo stato di eccitazione era tale da rendere vano ogni richiamo al senso di disciplina. E’ chiaro che un governo che non può più disporre, secondo la propria volontà politica, di uno dei più essenziali organi dello stato, quale l’apparato militare, non è più un governo libero. Nitti si trovò costretto, dopo il fiasco dei primi appelli rivolti alle truppe passate a Fiume perché rientrassero nei ranghi, a rinunciare ad emanare qualsiasi provvedimento disciplinare nei confronti di quei militari colpevoli di diserzione, accettando anzi una pressoché libera circolazione all’interno dei quadri fra truppe regolari e milizia dannunziana. Oltretutto, nel tentativo di trovare un compromesso pacifico, preferì legare al carro del governo proprio quelle autorità militari che più direttamente avevano favorito la sedizione, in quanto le più gradite ai rivoltosi.

Si assistette alla nascita di un regime di diarchia tra Nitti e D’Annunzio; il processo di decadimento della vita pubblica italiana raggiunse così il suo apice: la crisi dello stato liberale è in atto. Il movimento dannunziano rappresentò il segnale più allarmante della presenza ben radicata nella coscienza nazionale di un movimento sovvertitore che intendeva porre in crisi l’autorità dello stato e l’intero sistema politico e istituzionale. La marcia su Fiume può essere letta facilmente come il preludio del colpo di stato attuato da Mussolini tre anni dopo, anch’esso vincente soprattutto grazie all’appoggio generalizzato di generali e ufficiali dell’esercito. La stessa cricca di ufficiali superiori e uomini politici che nel 1919 favorì D’Annunzio, doveva favorire Mussolini nel 1921 e nel 1922: la Marcia su Fiume del 1919 fu il precedente della Marcia su Roma del 1922.

L’occupazione di Fiume fornirà al fascismo il modello per le sue milizie e per le sue uniformi, il nome per le sue squadre, il suo grido di guerra e la sua liturgia. Mussolini copierà da D’Annunzio tutto l’apparato scenico, ivi compresi i dialoghi con la folla. Enrico Caviglia, nominato da Nitti per l’occasione commissario straordinario per la Venezia Giulia (subentrando a Badoglio), attribuì il successo della sedizione dei giurati di Ronchi a un clima degenerato, in cui la disciplina si era del tutto allentata e dove la crisi di legalità e di autorità dello Stato stava assumendo delle forme che molto difficilmente si potevano affrontare con successo. Tali eventi sono da considerare come il frutto, e non sicuramente l’origine, di quella disintegrazione della disciplina e dell’apoliticità che costituì la cifra caratteristica del dopoguerra italiano.

Fiume, in sostanza, rappresentò la rivelazione di un processo in atto, piuttosto che la sua origine: non è quindi esatto sostenere che con Fiume la sedizione sia entrata nell’esercito italiano, quanto, piuttosto, che a Fiume il decadimento del tradizionale spirito militare e la rottura del presupposto di cieca obbedienza che legava militari e potere politico si svelarono nella loro interezza. Nelle sue Rivelazioni su Fiume, Badoglio parlò della questione adriatica come di una febbre che aveva contagiato tutto l’esercito, un cancro che ne metteva in forse l’affidabilità, tanto che egli stesso, uno dei generali più influenti dell’esercito, appena nominato commissario straordinario per la Venezia Giulia, non poté garantire che le truppe non ancora passate con D’Annunzio obbedissero all’ordine di usare la forza contro i rivoltosi.

Di fatto, la diserzione di interi reparti e di ufficiali in servizio attivo, fra cui un certo numero di superiori, e, soprattutto, la convinzione diffusa (radicata anche in D’Annunzio) che solo un fragile equilibrio tra convenienza e obbedienza tratteneva altre truppe dal ribellarsi, costituirono, come avrebbe ammesso Pecori Giraldi nella conclusione della sua inchiesta ufficiale, un fiero colpo alla disciplina militare dell’Esercito Italiano. La questione generazionale (Caviglia parlerà di giovani ufficiali usciti dalla guerra, spinti da un miscuglio di amore di patria, di passioni sessuali, di incertezza nell’avvenire), che rifletteva una più vasta modificazione del corpo ufficiali italiano all’indomani della guerra, non ebbe un suo rilievo soltanto nella vicenda di Fiume; difatti, costituì una delle premesse fondamentali che permisero la salita al potere di Mussolini. Chi uscì senz’altro vincitore da tale vicenda furono le nuove forze della reazione nazionalista che, raccolte attorno a quei centri di potere che grazie alle circostanze belliche erano cresciuti all’interno dello stato, poterono godere di una posizione assai più solida. Queste uscirono sostanzialmente vittoriose dalla loro prima sortita in campo aperto contro il governo civile, nei cui confronti, pur non avendone provocato la caduta, sapevano di poter disporre di assoluta impunità e quindi di larghissima libertà d’azione oltre ogni limite legale.

Inoltre, la manifesta debolezza del governo stesso di fronte all’aperto dispregio della sua autorità fece sì che si offuscasse nella coscienza pubblica il senso della legalità; di conseguenza, si diffuse a macchia d’olio la convinzione che contro lo stato si potesse tutto osare, che ogni violenza venisse tollerata. In tal modo, sempre più cresceva la scettica diffidenza dei cittadini verso le loro libere istituzioni e sempre più si inaridiva quel sentimento di devozione verso la cosa pubblica, che è il presupposto necessario di ogni libera e ordinata vita civile. In conclusione, più che essere l’esercito ad essere venuto meno ai suoi doveri, sembrava essere l’intero corpo nazionale ad avere la colpa di avere spinto l’esercito sulla china della rivolta.

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