L’eccidio del cantiere Gondrand

13 Febbraio 1936, Guerra d’Etiopia: l’eccidio del cantiere Gondrand.

Tale definizione fa riferimento alla strage avvenuta nei pressi della località etiopica di Mai Lahlà. Questa ebbe luogo all’alba del 13 febbraio 1936, durante la Guerra d’Etiopia, quando quasi tutti gli operai italiani di un cantiere per costruzioni stradali furono uccisi a seguito di un’operazione di guerriglia condotta da alcuni soldati etiopici agli ordini di ras Immirù Hailé Selassié, militare e diplomatico etiope. La strage avvenne in contemporanea alla battaglia di Amba Aradam, della quale di recente abbiamo dato conto.

Nella località Utok Emni presso Mai Lahlà, ubicata nelle retrovie del territorio etiope, nelle immediate vicinanze del confine con l’Eritrea, la Società Nazionale Trasporti Gondrand si stava occupando della costruzione di strade coloniali, e presso il villaggio di Daro Taclè aveva posto il suo cantiere n.1, impegnato nell’allargamento della strada tra l’Asmara ed Adua. L’obiettivo era quello di collegare Adua con l’Eritrea. Il cantiere ospitava poco meno di un centinaio di operai italiani, con a capo l’Ingegnere Cesare Rocca, accompagnato da sua moglie Lydia Maffioli e dall’Ingegnere Roberto Colloredo Mels.

Gli operai erano privi di armi, poiché il cantiere si trovava nelle retrovie, e anche perché il Cascì del vicino villaggio di Mai Enda Baria aveva giudicato provvidenziali i nuovi lavori, addirittura chiedendo di poter impiegare i disoccupati del suo villaggio. Nonostante nella zona vi fossero presidi di truppe italiane, l’area del cantiere non risultava a loro visibile.

L’ordine di attaccare il campo di Mai Lahlà fu dato dallo stesso Ras Imrù al Fitaurari Tesfai (“Comandante dell’avanguardia”: titolo militare conferito al comandante dell’avanguardia di una forza armata tradizionale etiopica), perché, come dichiarò nel luglio 1936, lo ritenne atto legittimo di guerra. Queste le sue parole: “Ho dato io stesso al Fitautari Tesfai l’ordine di attaccare il campo di Mai Lahlà. Lo ritenevo e lo ritengo ancora un atto legittimo di guerra, poiché gli operai erano in zona di operazioni ed erano armati di moschetto. Infatti, essi si difesero accanitamente infliggendoci dure perdite. Cosa che non potevano certo fare le nostre popolazioni, quando venivano attaccate e decimate dall’aviazione fascista”.

Il cantiere era fornito di circa 15 moschetti ma, nonostante gli operai tentarono di impiegare anche gli attrezzi di lavoro (pale e picconi) come strumenti di difesa, furono sopraffatti dagli Etiopi. Nell’eccidio furono massacrati, mutilati ed evirati 68 Italiani, 17 Eritrei e 1 Abissina, domestica del campo. Tra i morti vi furono il direttore del cantiere Ingegnere Cesare Rocca e la moglie Lidia Maffioli (ritrovata uccisa a colpi di rivoltella, probabilmente ad opera del marito per evitarle la cattura), come anche il vicedirettore Ingegnere Roberto Colloredo di Mels. Quasi tutti gli operai presenti quella notte, sessantotto Italiani e diciassette Eritrei, furono uccisi nel giro di un paio d’ore, salvo due Italiani (Alfredo Lusetti e Ernesto Zannoni), i quali finirono prigionieri e successivamente liberati.

Il massacro fu scoperto qualche ora dopo da un reparto del 41º Reggimento. Sul luogo il primo sacerdote a giungere fu Fra Ginepro, che così descrisse la scena: “L’ingegnere capo, uno dei tre o quattro che erano armati, ha sparato tutti i colpi della sua rivoltella e ora giace con gli stivaloni alti, con la giubba stracciata, col volto che guarda fisso la sua signora. Dietro a lui in doppia fila sono allineati 70 cadaveri, di cui 18 evirati, con uno strato giallognolo al luogo della mutilazione”.

Gli uomini del Fitaurari subirono 68 perdite, in gran parte dovute all’esplosione accidentale del deposito degli esplosivi del cantiere durante la razzia. I superstiti furono pochissimi, circa una ventina, tra cui il Tenente Clemente Ruggiero che si trovava a Mai Lhalà con il suo furgone della posta. Subito dopo il massacro, i soldati Italiani iniziano una dura rappresaglia nei confronti della popolazione della zona circostante a Mai Lahlà. Nei pressi del cantiere furono uccisi a fucilate cinque passanti; nel villaggio di Darò Taclè avvennero 18 uccisioni. Ogni giorno giunsero alle autorità italiane denunce di brutali violenze contro la popolazione indigena.

La reazione italiana al massacro della Gondrand portò all’impiccagione di capi locali e individui ritenuti colpevoli del massacro, i cui corpi furono lasciati a lungo esposti sulla forca alla mercé degli avvoltoi come monito alla popolazione locale. Dopo questo massacro, a tutti gli italiani venne indicato dai comandi di tenere per sé l’ultima cartuccia in caso di scontro armato, per evitare una fine brutale se catturati. I corpi degli italiani, insieme a quelli Eritrei, vennero seppelliti in un cimitero allestito nei pressi del cantiere. I loro nomi furono inseriti nella lapide in bronzo collocata nel salone della sede centrale della Società Nazionale Trasporti Gondrand di Milano. Le salme dell’Ingegner Rocca e della moglie vennero riportate in Italia negli Anni ’60.

Il Prof. Luigi Goglia scrisse: “Certamente gli Etiopici, che difendevano il loro Paese da un’aggressione, avevano qualche ragione in più per compensare la loro debolezza con la ferocia verso l’aggressore; e ras Immerù aveva sicuramente ragione quando rivendicava l’attacco al cantiere Gondrand come un legittimo atto di guerra, e a tutti gli effetti bisogna riconoscere che tale fu. Quanto invece seguì all’entrata degli armati etiopici nel cantiere appartiene al triste capitolo delle atrocità”.

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