I patrioti subalpini speravano quindi di poter investire la monarchia delle nuove aspirazioni nazionali, e di poterne fare così la bandiera e la guida della guerra italiana contro il nemico austriaco.
Con questa soluzione liberale moderata la nobiltà del Piemonte contrastava, comunque, l’avversione irriducibile dei circoli di corti e dello stesso re Vittorio Emanuele nei confronti di tutto ciò che avesse anche un minimo e impercettibile sentore rivoluzionario. Questa nobiltà liberale aveva tuttavia scarsissima influenza sulle masse popolari rimaste sempre fedeli alla monarchia assoluta, e altrettanto isolate apparivano le sette di tendenza borghese, come per esempio la Carboneria, l’Adelfia, i Sublimi Maestri Perfetti, alle quali aderivano elementi militari e vecchi Giacobini. Più orientata verso un’apertura mentale futuristica era invece la Società dei Federati, molto diffusa in Lombardia, oltreché in Piemonte, col suo chiaro programma costituzionale che aspirava all’ottenimento dell’indipendenza. Anche in Piemonte, come già a Napoli, non mancarono tuttavia contrasti e sospetti tra l’aristocrazia liberale, riluttante ad accettare soluzioni di carattere democratico, e le sette di ispirazione radicale; un motivo, questo, che caratterizzerà tutta la nostra storia risorgimentale.
Per chi fosse interessato, lo storico Rosario Romeo (Giarre, 11 ottobre 1924 – Roma, 16 marzo 1987) analizza questo argomento nel suo testo “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale”.