La rivoluzione dei coloni d’America

Nella rivoluzione dei coloni d’America coesistono le affermazioni universalistiche che si possono leggere all’interno dei primi due paragrafi della Dichiarazione di indipendenza e la strenua difesa degli interessi economici di una piccola comunità produttiva. Lo spirito mercantilista assegnava ad ogni paese d’Europa il monopolio esclusivo dei traffici con le proprie colonie, che costituivano così un mercato elitario e privilegiato, ove la madrepatria smerciava i suoi prodotti e si riforniva di materie prime. Ogni attività produttiva (specie la siderurgica e la tessile) in concorrenza con le industrie inglesi era severamente e rigorosamente vietata ai coloni d’America. Ma, almeno inizialmente, restrizioni e controlli non poterono deprimere le fiorenti attività economiche delle colonie, che erano venute sviluppandosi anche in ragione dell’afflusso di nuovi emigrati provenienti dall’Europa continentale. Nelle assemblee rappresentative locali si levarono sempre più frequenti proteste contro i dazi nuovi ed antichi. Nel 1765, ad esempio, il parlamento britannico decise di introdurre nelle terre coloniali d’America la legge del bollo, imponendo per ogni contrattazione commerciale una speciale carta bollata: una forma di tassazione indiretta, che andava ad aggiungersi ai già presenti dazi doganali. Alla nuova misura essi reagirono appellandosi ai principi stessi del costituzionalismo inglese, per il quale ogni tassazione doveva forzatamente esser approvata dai rappresentanti del popolo. Giacché nessun rappresentante dei coloni sedeva in Parlamento, parve loro legittimo il rifiuto di sottostare alla nuova imposizione. La legge sul bollo fu ritirata, ma il governo britannico si affrettò ad inasprire i vecchi diritti doganali e ad introdurne di nuovi.

Quindi, possiamo facilmente sostenere che ciò che incrinò effettivamente i rapporti dei coloni con il governo di Londra fu la progressiva erosione da parte del governo inglese del sistema di autogoverno locale. Con le imposizioni fiscali Londra intendeva rendere indipendente la politica amministrativa dei governatori dal consenso delle assemblee locali, fornendo loro i mezzi necessari per gestire autonomamente la difesa militare e la giustizia. Fu proprio questo il risvolto più irritante di quelle misure tributarie e insieme la ragione della popolarità ottenuta da uno slogan che cominciò a circolare in quegli anni (no taxation without representation).
Visto che il Parlamento londinese riteneva di rappresentare virtualmente anche le colonie, senza che rappresentanti coloniali fossero presenti di persona a promuovere gli interessi dei territori di provenienza, quella rivendicazione mirava a ottenere che delegati coloniali fossero eletti a far parte del potere legislativo. Una simile pretesa, nella cui pacifica realizzabilità ben pochi credevano, probabilmente, equivaleva di fatto a far riconoscere le colonie non come aree subalterne, bensì come Nazioni politicamente paritarie, specialmente sul piano dei diritti. Nacque di conseguenza un movimento di protesta anti-fiscale, incoraggiato da alcune organizzazioni indipendentiste, che conobbe un crescendo inarrestabile soprattutto dopo che alcune truppe britanniche spararono a Boston nel 1770 sulla folla uccidendo cinque persone (evento enfatizzato largamente dai coloni, che lo etichettarono come il massacro di Boston. Il primo episodio di violenza avvenne quando, a seguito dell’emanazione della Legge sul tè (Tea Act, 1773), che concedeva il monopolio del commercio del tè alla Compagnia delle Indie Orientali, alcuni militanti indipendentisti, saliti a bordo di una nave della Compagnia, gettarono in mare il suo carico (episodio ben noto con il nome di Boston Tea Party). La risposta repressiva inglese non si fece attendere. Il porto di Boston venne chiuso, furono sciolte tutte le assemblee locali e fu imposto il trasferimento in Inghilterra degli imputati americani. A loro volta, i coloni americani, riunitisi il 5 settembre 1774 nel primo Congresso continentale di Philadelphia, su iniziativa iniziativa dell’Assemblea della Virginia, stabilirono di chiudere ogni relazione commerciale con la Gran Bretagna. Era la guerra.

La Guerra di Indipendenza (1775-1782)
Nell’aprile 1775 l’occasione per uno scontro militare tra le due parti fu offerta da un attacco armato di coloni indipendentisti contro gli inglesi, che diede adito a una reazione inglese, e ancora ad un contrattacco dei coloni. La resistenza armata contro le truppe britanniche non fu più episodica.
Nel secondo Congresso continentale del 10 maggio 1775 la lotta armata costituiva logicamente il primo punto dell’ordine del giorno. Il Congresso adottò la memorabile decisione di formare un esercito sotto il comando di George Washington (1732-1799), un facoltoso proprietario della Virginia, che aveva combattuto contro la Francia nell’esercito inglese nel 1754, ottenendo il grado di tenente colonnello.
Il 17 giugno 1775, a Bunker Hill, presso Boston, ebbe luogo il primo conflitto armato di una certa importanza. Fallì invece il tentativo di scacciare gli inglesi dal Canada. Giorgio III, monarca inglese, decretò che i coloni americani fossero considerati ribelli e che fossero interrotti tutti i traffici commerciali con le colonie. Come risposta immediata, il 23 gennaio 1776 l’assemblea del Massachusetts proclamava il diritto alla resistenza, facendo suoi gli argomenti libertari promossi dal filosofo inglese Thomas Paine. Questi erano segnali del fatto che l’opinione pubblica si stava oramai convertendo all’idea di una guerra di liberazione nazionale. Pochi mesi dopo, il 4 luglio del 1776, il terzo Congresso continentale approvò una Dichiarazione di indipendenza, stilata da Thomas Jefferson (1743-1826), in cui veniva affermata con forza l’idea secondo cui la legittimità del potere doveva risiedere nel consenso. In assenza di questo, ai cittadini veniva largamente concesso il diritto di ribellarsi. Mi riservo di occuparmi della Dichiarazione nel prossimo articolo, in modo da poterla approfondire in relazione all’estrema importanza dell’evento.

La Gran Bretagna costituì un esercito di mercenari, composto all’incirca da 30.000 uomini, in gran parte tedeschi. I coloni, invece, disponevano di un’armata meno numerosa e meno preparata, con una punta massima di 20.000 uomini. L’occupazione di New York nel 1776 da parte britannica simboleggiò la superiorità militare inglese del momento specifico. Logico pensare che i coloni avrebbero avuto ben poche possibilità di spuntarla, se al loro fianco non fossero scese le grandi potenze europee. Nel febbraio 1778, in effetti, preparata da un’ambasceria di Benjamin Franklin dal Congresso a Parigi nel dicembre 1776, veniva stipulata un’alleanza militare con la Francia di Luigi XVI, che portava sul continente nordamericano un piccolo corpo di spedizione guidato da Marie-Joseph de Motier, marchese di La Fayette, il quale già in precedenza si era unito ai coloni come volontario. Entrarono quindi in scena a fianco della Francia nel 1779 la Spagna, e nel 1780 le Province Unite. La guerra assunse un carattere internazionale, in quanto coinvolse anche fronti lontani, come le Antille e i Caraibi, l’India e la Gibilterra. Dunque, il rovesciamento delle sorti del conflitto non poteva farsi attendere, in quanto l’Inghilterra doveva ormai combattere contro mezzo mondo.

La conclusione della guerra
Nell’autunno del 1781 l’esercito inglese venne imbottigliato nella penisola di Yorktown, in Virginia, da quello franco-americano. Il 19 ottobre 1781 gli inglesi vennero costretti dagli eventi a chiedere la resa. La guerra volgeva ormai a favore dei coloni, anche se si prolungò per un altro anno. Il 30 novembre 1782, infine, il governo inglese decise di procedere alla firma dei preliminari della pace, che venne sottoscritta anche dalla Francia e dalla Province Unite il 3 settembre dell’anno successivo. La Spagna ottenne dall’Inghilterra la Florida e Minora. La Francia ottenne la restituzione di alcune sue basi in Senegal, alcune isole nelle Antille e la concessione dei diritti di pesca a Terranova.

I coloni, dunque, alla fine trionfarono in questo confronto armato, e ciò permise di procedere alla creazione della Confederazione degli Stati Uniti d’America. Le divisioni, comunque, non mancarono al loro interno, in quanto i nativi americani non si dimostrarono affatto uniti (almeno inizialmente) sui fini ultimi da perseguire: mentre una parte dei coloni (soprattutto i proprietari terrieri), pur rivendicando ampie autonomie, non intendevano rompere con la madrepatria, i radicali e coloro che orgogliosamente si autodefinirono patrioti, inclinavano per l’autogoverno, quindi per la piena indipendenza dall’Inghilterra. Sotto lo schermo del conflitto ideologico tra lealisti e indipendentisti si celavano forti contrasti di classe tra la grande borghesia terriera e la piccola e media borghesia, conflitti che divennero sempre più acuti, tanto da indurre un altissimo numero di tories della Virginia, fedeli alla corona inglese, ad emigrare. Furono i radicali a prevalere, e la rivoluzione si risolse con la secessione delle colonie dalla madrepatria. Essa fu salutata in Europa dall’entusiasmo dei novatori, che vi videro confermata la validità delle loro dottrine.

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Informazioni su ipercorsidellastoria

Laureato col massimo dei voti in Relazioni Internazionali, laurea breve in studi storico-politici; Master in Editoria e Comunicazione; appassionato di tematiche quali storia, economia, sociologia, filosofia, diritto; percorso di scrittura intrapreso al fine di condividere, con chi interessato, nozioni che potrebbero risultare utili in diverse occasioni.

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