La reclamata Costituzione di Cadice, per il suo forte accento democratico soprattutto, non lasciava indifferenti come detto neppure gli strati popolari, ragion per cui il movimenti si ingrossò rapidamente. Certo è che non si ripeté nel 1820 il triste fenomeno del sanfedismo contadino (con il termine sanfedismo si designa un variegato movimento controrivoluzionario, nato nell’Italia Meridionale alla fine del XVIII secolo), che aveva visto le campagne sollevarsi unite contro le esigue schiere dei patrioti. Alla testa dell’insurrezione si posero alcuni ufficiali ex murattiani (fra i quali il generale Guglielmo Pepe). Di fronte ad un così vasto schieramento di forze Ferdinando preferì cedere: giurò dunque fedeltà alla Costituzione e promise di difenderla dinanzi ai governi della Santa Alleanza.
Anche nel Napoletano, tuttavia, come in Spagna, il nuovo regime fu indebolito dal conflitto interno insorto tra i murattiani, ai quali la corona aveva affidato il governo, e i democratici che avevano promosso il moto rivoluzionario. Il governo non seppe conservare i consensi che si erano manifestati quasi unanimi, non cercò la solidarietà del mondo contadino, non volle collegarsi al movimento settario della penisola per dare un respiro nazionale alla rivoluzione. I moti agrari, inoltre, fecero rifluire su posizioni conservatrici gran parte dei ceti abbienti e divisero la stessa Carboneria: l’ala sinistra rimase isolata e si irrigidì su posizioni estremistiche.
Ai contrasti sopracitati si aggiunse la sollevazione di Palermo, insorta contro Napoli per rivendicare l’autonomia isolana. Anche questa rivolta pesò negativamente sulle sorti del governo costituzionale, che, dopo aver assunto un atteggiamento conciliante nei confronti dei ribelli, fece ricorso alla forza. Pietro Colletta (1775-1831) assolse il suo compito con grande zelo attirandosi così l’odio dei Siciliani.