La rivoluzione si allarga al Napoletano

La rivoluzione si propagò rapidamente dalla penisola iberica al Napoletano. Il 1° luglio del 1820 il presidio di Nola, controllato e gestito dalle organizzazioni carbonare, guidato da due giovani ufficiali (Michele Morelli e Giuseppe Silvati) e da un sacerdote, Luigi Minichini, si ammutinò reclamando la Costituzione di Cadice. Ne seguirono l’esempio altri presidi in Puglia e in Basilicata, mentre insorgevano ovunque le Vendite carbonare (Vendita: equivalente della Loggia per i massoni) diffuse tra la piccola e la media borghesia e anche tra gli strati popolari dei piccoli centri rurali. La richiesta della Costituzione significava richiesta del controllo pubblico sulle finanze statali, come anche, per quanti avevano profittato delle alienazioni di terre avvenute ai tempi di Murat (generale francese, re di Napoli e maresciallo dell’Impero con Napoleone Bonaparte), difesa dei propri interessi minacciati dal restaurato regime borbonico, in quanto vie era da temere concretamente, sull’esempio di quanto era già avvenuto in Spagna, che tali alienazioni venissero annullate.

La reclamata Costituzione di Cadice, per il suo forte accento democratico soprattutto, non lasciava indifferenti come detto neppure gli strati popolari, ragion per cui il movimenti si ingrossò rapidamente. Certo è che non si ripeté nel 1820 il triste fenomeno del sanfedismo contadino (con il termine sanfedismo si designa un variegato movimento controrivoluzionario, nato nell’Italia Meridionale alla fine del XVIII secolo), che aveva visto le campagne sollevarsi unite contro le esigue schiere dei patrioti. Alla testa dell’insurrezione si posero alcuni ufficiali ex murattiani (fra i quali il generale Guglielmo Pepe). Di fronte ad un così vasto schieramento di forze Ferdinando preferì cedere: giurò dunque fedeltà alla Costituzione e promise di difenderla dinanzi ai governi della Santa Alleanza.

Anche nel Napoletano, tuttavia, come in Spagna, il nuovo regime fu indebolito dal conflitto interno insorto tra i murattiani, ai quali la corona aveva affidato il governo, e i democratici che avevano promosso il moto rivoluzionario. Il governo non seppe conservare i consensi che si erano manifestati quasi unanimi, non cercò la solidarietà del mondo contadino, non volle collegarsi al movimento settario della penisola per dare un respiro nazionale alla rivoluzione. I moti agrari, inoltre, fecero rifluire su posizioni conservatrici gran parte dei ceti abbienti e divisero la stessa Carboneria: l’ala sinistra rimase isolata e si irrigidì su posizioni estremistiche.

Ai contrasti sopracitati si aggiunse la sollevazione di Palermo, insorta contro Napoli per rivendicare l’autonomia isolana. Anche questa rivolta pesò negativamente sulle sorti del governo costituzionale, che, dopo aver assunto un atteggiamento conciliante nei confronti dei ribelli, fece ricorso alla forza. Pietro Colletta (1775-1831) assolse il suo compito con grande zelo attirandosi così l’odio dei Siciliani.

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