La Rivoluzione Industriale

La locuzione menzionata nel titolo, oltre ad indicare quel complesso di eventi economici, sociali e culturali che cominciarono a profilarsi sull’orizzonte britannico alla fine degli anni Settanta del XVIII secolo, designa un effettivo rivoluzionamento che investì profondamente la società inglese, andando a modificare gli stili di vita di milioni di individui e famiglie, l’assetto tecnologico delle imprese, il modo stesso di concepire e di approcciarsi al lavoro. Questa rivoluzione (inglese), che fece della macchina industriale e dell’energia a vapore i fattori propulsivi della società nel suo complesso, non ebbe un equivalente nel resto d’Europa. Diventa quindi logica e legittima la domanda relativa al perché essa costituì una realtà inizialmente solo inglese.

Va osservato innanzi tutto che l’Inghilterra deteneva una posizione di egemonia ben radicata sui mercati mondiali, e dunque, nelle sue banche e nelle sue borse, così come nelle tasche di moltissimi imprenditori, circolava una enorme quantità di capitali. I tassi di interesse, ovvero la percentuale richiesta dalla banche sul capitale prestato, erano decisamente bassi e in continuo lento calo grazie anche agli interventi diretti della Banca d’Inghilterra. Ciò rendeva relativamente facile l’acquisto di denaro da parte di chi intendeva sfruttarlo a titolo di investimento imprenditoriale, di finanziamento di invenzioni e innovazioni. Bisogna necessariamente rammentare che un qualsiasi cambiamento strutturale (mutamento che riguarda tanto le strutture produttive industriali – fabbriche, miniere – che le infrastrutture – sistema viario -) di una qualsivoglia società richiede grandi quantità di capitale a tassi di interesse ragionevolmente modesti. In assenza di tale assunto, lo sviluppo procederà a ritmi lenti e incerti, e non diventerà mai rivoluzionario.

Va rilevato inoltre che molti dei primi imprenditori manifatturieri erano o mercanti provvisti della necessaria esperienza per comprendere il significato della meccanizzazione della produzione oppure imprenditori della piccola industria tessile a domicilio, anch’essi dotati della capacità di saper cogliere l’importanza dell’applicazione delle macchine al lavoro. Questi piccoli imprenditori potevano inoltre utilizzare nelle proprie aziende urbane molti di quegli artigiani tessili che avevano lavorato al loro servizio e che mettevano in questo modo a loro disposizione un importante capitale tecnico di conoscenze. A questo proposito l’Inghilterra godeva di una situazione estremamente vantaggiosa rispetto agli altri Paesi del continente, in quanto la sua industria a domicilio aveva conosciuto tra Seicento e Settecento uno sviluppo che non aveva pari altrove.

Bisogna poi sottolineare che la rivoluzione industriale mise le sue prime radici nel settore tessile. Tale circostanza è da considerarsi come del tutto naturale, dal momento che la produzione tessile era l’unica a disporre di un mercato di massa grazie ai prezzi bassi e decrescenti. Del resto, questo mercato stava registrando un’espansione consistente a causa dell’accresciuta domanda di prodotti d’abbigliamento, collegata al grande incremento demografico iniziato soprattutto dopo il 1760. Il ramo tessile, inoltre, era forse anche l’unica branca industriale che richiedeva modesti investimenti iniziali. Nei primi anni della rivoluzione industriale inglese bastavano in effetti pochi capitali per impiantare un’azienda tessile, che di solito era composta da un magazzino o da un locale preso in affitto dove lavoravano una dozzina di operai, che impiegavano due o tre macchine per filare. Con i profitti realizzati si potevano acquistare nuovi lavoratori e soprattutto acquistare macchine a vapore, in modo da poter avviare un ciclo investimento-profitti che poteva permettere l’accumulo di grande ricchezza.

L’Inghilterra era il Paese che aveva conosciuto la più importante corrente di invenzioni tecniche di tutto il continente europeo, favorita da una spiccata propensione dei nuovi imprenditori a trasferire queste invenzioni nel processo produttivo, trasformandole così in innovazioni tecnologiche. I settori investiti da questo processo di rinnovamento furono soprattutto quello tessile e quello siderurgico. Nel ramo tessile la strada del rinnovamento aveva già subito un’importante svolta nei primi decenni del XVIII secolo, quando si registrò un aumento consistente della domanda di prodotti tessili sui mercati nazionali e internazionali, anche grazie alla richiesta di tessuti di cotone da parte dei grandi latifondisti delle colonie meridionali del Nord America per vestire gli schiavi delle piantagioni. Trovandosi di fronte la forte concorrenza dei cotonati indiani, di qualità e robustezza superiori, gli imprenditori inglesi si trovarono nella necessità di abbassare i prezzi. Questa possibilità fu offerta dall’introduzione della “navetta volante”: inventata dall’orologiaio John Kay nel 1733, tuttavia applicata al processo industriale intorno agli anni 1750-70, era uno strumento a forma di navicella contenente il filato che, applicato sul vecchio telaio di legno, permetteva, attraverso il movimento ricevuto da un congegno a pedale, di intrecciare in tempi più rapidi la trama all’ordito. La navetta, tuttavia, accelerava i tempi della tessitura senza che le capacità produttive della filatura subissero un analogo impulso, per cui furono necessarie altre invenzioni tecniche per compensare questo squilibrio. Il problema fu risolto dall’invenzione degli stiratoi a rulli da parte di L.Paul e di J.Wyatt, che entrarono in uso intorno al 1750. Con l’introduzione dal 1770 del filatoio meccanico a lavoro intermittente, i tempi della filatura subirono un’ulteriore riduzione, in quanto si potevano assemblare più fili nello stesso tempo, in quanto la cosiddetta Spinning Jenny rendeva attivi contemporaneamente ben sei fusi. Nel 1769 il barbiere Richard Arkwright ideò il filatore idraulico a lavoro continuo, mosso dall’energia idraulica che riusciva a realizzare un filo molto robusto ideale per l’ordito. Dieci anni dopo fu la volta della macchina di Samuel Crompton, la “mula” (perché, come il mulo combina le caratteristiche somatiche del cavallo e dell’asino, questo filatoio fondeva i caratteri del filatoio meccanico e della Giannetta filatrice), la quale consentiva la riduzione del numero degli addetti poiché il filo non passava più tra le mani degli operai. Il nuovo filatoio, oltre a far girare fino a centotrenta fusi, permetteva di ottenere un filato più forte e regolare, superiore anche a quello prodotto dagli artigiani indiani. Da allora, il rapporto cambiò. Mentre in precedenza l’India esportava in Inghilterra i suoi tessuti di cotone, ora essa importava cotonate britanniche e finì per limitarsi a esportare cotone grezzo.

L’industria siderurgica inglese attraversò anch’essa un periodo di grande crescita tecnologica, indotta dall’aumento della domanda di ferro proveniente soprattutto dal settore manifatturiero tessile che richiedeva macchine sempre nuove e più robuste. Nei decenni precedenti agli anni Ottanta, la siderurgia si trovava in difficoltà in quanto, a causa delle elevate temperature dei suoi altiforni, aveva bisogno di grandi quantità di carbone di legna. I costi di questa materia energetica erano costantemente aumentati a causa della sua ridotta reperibilità sul mercato, dovuta al processo di deforestazione che aveva coinvolto tutta l’Europa, Inghilterra inclusa. La Gran Bretagna era comunque ricca di carbone fossile. Pertanto l’industria per la lavorazione di minerali ferrosi tentò di convertirsi al suo uso, ma il ricorso a questa forma di energia si rivelò fallimentare in quanto, nel corso della combustione, la componente di zolfo del carbon fossile, interagendo con alcuni elementi chimici del ferro, portava a un’alterazione irreversibile della ghisa (derivante dalla raffinazione del ferro negli altiforni). L’ostacolo venne in parte superato solo grazie alla generalizzazione del metodo di produzione della ghisa messo a punto da Abraham Darby già dal 1709, il quale aveva fatto ricorso a un processo di raffinamento del carbon fossile sotto forma di coke. Questo nuovo metodo venne integrato nel sistema di Henry Cort che unificò, grazie all’uso della macchina a vapore, i procedimenti di fusione e di rimescolamento della ghisa con quelli della laminazione della sagomatura. La macchina a vapore rendeva praticabile insufflare aria negli altiforni permettendo così la completa combustione del coke, l’eliminazione della maggior parte delle impurità derivanti dal suo utilizzo e quindi il miglioramento della robustezza delle barre di ferro.

L’invenzione della macchina a vapore fu intimamente legata al problema dell’esaurimento dei depositi superficiali di carbone e, quindi, alla necessità di scavare pozzi in profondità che spesso venivano allagati da acque sotterranee. Prima Edward Somerset e Thomas Savery, quindi Thomas Newcomen, sfruttando il nuovo modello di pompa idraulica costruito dal fisico francese Denis Papin, realizzarono un primo tipo di macchina a vapore capace di drenare l’acqua dalle gallerie.

La macchina a vapore di Newcomen costituì il primo tentativo riuscito di costruire un motore, ovvero una macchina capace di produrre lavoro meccanico trasformando un qualche tipo di energia. La macchina a vapore utilizzava sistematicamente l’energia termica del carbon fossile per produrre movimento. Essa, inoltre, si avvaleva della forza di espansione di un corpo (l’acqua) allo stato gassoso fortemente riscaldato e compresso e godeva nello stesso tempo del vantaggio di evitare la perdita di calore determinata dal contatto della pompa con l’acqua. Nella versione perfezionata che ne fece James Watt (1782) il vapore d’acqua, agendo alternativamente sulle due facce di un pistone, finiva con l’imprimergli un moto rettilineo che si trasformava in rotatorio. Per la prima volta di delineava la possibilità di applicare un motore ai trasporti e alla produzione. Il macchinismo e il vapore stavano connotando sempre più la rivoluzione industriale inglese.

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