La Rivoluzione Agricola

Questa fu senz’altro una stagione fortunata per il progresso, tanto dal punto di vista industriale, quanto da quello agricolo. La Gran Bretagna, naturalmente, fu il fulcro di questa stagione di innovazione.
Cosa si intende per rivoluzione agricola?
Potremmo definirla come un insieme di trasformazioni della tecnica e della società rurale che permisero un sostanziale e significativo aumento della produttività del sistema agricolo. La rivoluzione agricola rese possibile accrescere la produzione, in termini di volume fisico e di valore di mercato, non attraverso l’aumento dei suoi fattori (terra e lavoro), ma attraverso l’aumento dei rendimenti della terra e della produttività del lavoro. Coniata in parallelo a quella di Rivoluzione Industriale, l’idea di Rivoluzione Agricola ha condotto a concentrare l’attenzione sull’Inghilterra del periodo 1760-1800, nel quale viene generalmente individuato l’avvio dei primi processi di industrializzazione. La Rivoluzione Agricola fu un prerequisito essenziale di quella industriale: senza un notevole aumento della produttività agricola e una crescente disponibilità di beni primari, non sarebbe stato possibile lo spostamento della forza lavoro dall’agricoltura all’industria, e i processi di urbanizzazione avrebbero presto incontrato dei limiti invalicabili.

L’incremento demografico inglese, divenuto consistente a metà del secolo, aveva comportato seri problemi dal punto di vista sociale. La quantità di cereali necessaria a garantire la sopravvivenza stava approssimandosi paurosamente all’offerta, con il rischio che annate di cattivi raccolti costringessero il governo britannico a massicce importazioni di grano dall’estero. Questo problema investiva tutto il continente. Gli agronomi inglesi, tuttavia, seguirono una via diversa da quella dei colleghi continentali. Mentre questi, per aumentare la resa dei suoli, fecero adottare ai rispettivi governi una strategia che si basava prevalentemente sul ricorso a colture di mais e di patate di origine americana, quelli inglesi mirarono all’incremento dai rendimenti della terra. La strada seguita fu quella di sostituire il sistema dei campi aperti (aree non delimitate da recinti o siepi coltivate a cereali con il sistema delle rotazioni triennali) con prati artificiali cintati (pratica conosciuta come enclosures, sanzionata da un’apposita legge). La tecnica utilizzata consisteva specificatamente nel seminare diversi tipi di piante foraggere oculatamente scelte in modo che la loro alternanza continua su uno stesso campo permettesse di mantenere elevata la quantità d’azoto della terra (indispensabile per il metabolismo delle piante verdi), e nello stesso tempo mettesse a disposizione del bestiame da pascolo una quantità consistente di foraggio. Si otteneva in questo modo anche nuovo concime utile per rigenerare la terra in tempi più brevi. Veniva così diradato il ricorso al maggese, consistente nella pratica di lasciare una quota dei terreni allo stato incolto per permettere la ricostituzione dei loro componenti chimici fondamentali, pratica che di fatto equivaleva a un immobilizzo temporaneo di una parte del capitale fondiario. Grazie a queste nuove strategie colturali veniva aggirata la antieconomica separazione tra agricoltura e pascolo. Una cosa non da poco.

Dunque, a ben guardare, la Rivoluzione Agricola realizzata in Gran Bretagna non si basò sull’utilizzo della tecnologia produttiva, che entrò in campo solo a partire dal 1810, piuttosto su una razionalizzazione del sistema produttivo realizzata grazie alle ricerche agronomiche dell’epoca. Il reale problema di queste nuove pratiche consisteva nel fatto che esse erano assai costose, e quindi richiedevano ingenti investimento. Ora, molti contadini non disponevano dei capitali necessari per promuovere tali migliorie. Del resto solo un’azienda di medie o grandi dimensioni poteva disporre delle risorse finanziarie per sostenere un simile sforzo. Di conseguenza si realizzò nelle campagne inglesi una tendenza irreversibile alla concentrazione fondiaria, per la formazione di aziende capitalistiche che impiegavano manodopera salariata (contadini impoveriti) e reinvestivano quote dei guadagni per apportare migliorie al sistema produttivo. Lentamente vennero scomparendo quelle terre comunali che per lunga tradizione consuetudinaria avevano rappresentato un modo di sussistenza dei villaggi contadini, ma che costituivano ora un ostacolo allo sviluppo di aziende agricole orientate verso il mercato.

La Rivoluzione Agricola rese disponibile per le imprese urbane quote consistenti di braccianti agricoli che non trovavano più i mezzi necessari a provvedere alla propria sussistenza. Inoltre, la concentrazione capitalistica delle terre rese in prospettiva disponibili capitali che potevano trovare nei canali borsistici e bancari utili possibilità di confluenza. Questi capitali andavano ad aggiungersi a quelli che affluivano in Inghilterra dai mercati coloniali ed europei. I mercanti inglesi importavano in patria zucchero, tè, caffè, cotonate indiane, tabacco, merci che poi rivendevano in Europa. E ancora, traevano enormi profitti dal commercio degli schiavi, straordinariamente potenziati dal contratto di appalto della razzia dei neri (l’asiento: sinonimo di contratto per l’importazione di schiavi neri nelle colonie spagnole in condizioni di monopolio) concessi all’Inghilterra dalla Spagna nel quadro del trattato di Utrecht del 1713. Probabilmente tutti questi capitali non confluirono direttamente nell’investimento industriale, ma andarono a depositarsi nelle banche incrementando il mercato dei prestiti che negli ultimi due decenni del secolo cominciò a svilupparsi per poi assumere, agli inizi dell’Ottocento, dimensioni sempre più importanti.

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