La questione morale: schiavisti e abolizionisti

A favore della schiavitù
Una violazione tanto scoperta e radicale della dignità umana come lo schiavismo non poteva non porre alla coscienza europea, soprattutto nell’età del progresso scientifico, del diritto naturale e dell’Illuminismo, l’esigenza della creazione di una qualche giustificazione etica, che permettesse di perpetrare la pratica senza eccessive problematiche, morali e materiali.
Le argomentazioni più comuni degli schiavisti furono efficacemente riassunte da un philosophe illuminista in un saggio abolizionista del 1770. In esso viene dettagliatamente spiegato il credo comune agli schiavisti, che consideravano i neri come facenti parte di una razza nata appositamente per la schiavitù, che diveniva in tal modo una sorte di propensione naturale opportuna per questi individui. Vengono descritti come limitati, falsi e cattivi, questi criminali degni della morte, che addirittura avrebbero dovuto ringraziare i bianchi per l’opportunità concessagli di andare in America. Alcune di queste argomentazioni erano sostenute anche da africani, ovviamente dai capi che lucravano sulla tratta: Deschamps riferisce che un re africano, all’epoca dell’abolizione della tratta, si pose il dubbio su come avrebbe fatto da quel momento in poi a soddisfare le esigenze primarie di donne e bambini, vista la proibizione della fonte naturale di reddito. C’era poi la scontata argomentazione, giù usata al momento della conquista dell’America, dei vantaggi derivanti ai selvaggi dal contatto con la vera fede e con una cultura superiore. Tuttavia, questi argomenti vacillarono sotto l’urto del rinnovamento culturale europeo: il mito del buon selvaggio (secondo cui l’uomo, nella sua condizione originale, è un animale buono e pacifico, solo successivamente corrotto dalla società e dal progresso, a causa della quale diventa malvagio e senza scrupoli) ridimensionò il concetto di civiltà superiore, la critica anticlericale quello della vera fede, e così via.
Più efficace nella mentalità collettiva era, con grande probabilità, quello spirito pragmatico e utilitaristico che trovò espressione teorica nel liberalismo ottocentesco (il liberalismo è un insieme di dottrine, definite in tempi e luoghi diversi durante l’età moderna e contemporanea, che pongono precisi limiti al potere e all’intervento dello stato, al fine di proteggere i diritti naturali, di salvaguardare i diritti di libertà e, di conseguenza, promuovere l’autonomia creativa dell’individuo oltre che la sua indipendenza politica). Da una parte l’intima convinzione che la vita debba essere una competizione in cui i deboli forzatamente soccombono e che esistano leggi economiche inderogabili, e dall’altra il profondo scetticismo verso la dimensione spirituale della vita spiegano alcune contraddizioni, altrimenti incomprensibili, fra le vedute filosofiche e morali e le azioni degli schiavisti. Probabilmente la sintesi più efficace del pensiero schiavista è data dalla parole del negriero americano Richard Drake: “Bisogna pure acquistare e vendere degli schiavi. Qualcuno deve farlo; perché non riporre il fieno mentre il sole brilla?”.

Gli illuministi contro lo schiavismo
La questione morale fu posta efficacemente da quegli stessi intellettuali cui erano talvolta intitolate le navi della tratta (alcuni armatori di Nantes, infatti, battezzarono le navi negriere con nomi quali Voltaire, Contrat social, Révolution). Montesquieu scriveva: “Poiché tutti gli uomini nascono uguale, bisogna dire che la schiavitù è contro natura”, mentre Rousseau affermava: “Nel vedere la quarta parte dei miei simili mutata in bestie al servizio degli altri, ho pianto del fatto di essere uomo”. Voltaire mise a nudo la cinica contraddizione fra le parole e i fatti che spesso ci lascia indifferenti: “Diciamo loro che sono uomini come noi, che sono stati riscattati dal sangue di un Dio morto per essi; e poi li facciamo lavorare come bestie da soma; vengono nutriti molto male; se fuggono e vengono ripresi gli si taglia una gamba e li si costringe a produrre zucchero dopo avergli dato una gamba di legno. Dopo tutto ciò, osiamo parlare del diritto delle genti!”. Louis de Jaucourt (uno tra i più prolifici dei collaboratori dell’Encyclopédie, di cui redasse all’incirca 17.000 articoli) puntò il dito sulla brama di ricchezze che induceva a calpestare la dignità e la vita degli altri, tanto più se ridotti in schiavitù: “Si dirà forse che queste colonie andrebbero rapidamente in rovina si si abolisse la schiavitù dei negri. Ma quand’anche ciò accadesse, bisogna concluderne che il genere umano dev’essere orribilmente leso per arricchirci e fornirci il lusso? E’ vero che le borse dei ladri di strada sarebbero vuote se il furto fosse assolutamente soppresso”.
E proprio allo spirito illuministico si ispirò l’azione concreta dei primi abolizionisti europei del Settecento. L’inglese Granville Sharp nel 1769 ottenne una sentenza che rendeva illegale il possesso di schiavi in territorio inglese, e nel 1787 fondò Freetown, la città della Sierra Leone destinata al rimpatrio degli schiavi liberati; l’inglese Thomas Clarkson fondò nello stesso anno il Comitato per l’abolizione della tratta dei neri, in maggioranza formato da quaccheri, coinvolse poi nella sua azione uomini politici e ottenne nel 1789 che il primo ministro W.Pitt sostenesse, sia pure senza successo, la causa dell’abolizione. Clarkson fondò poi a Parigi la Società degli amici dei neri, cui aderirono illustri pensatori, scienziati e personalità di primo piano nella futura Convenzione rivoluzionaria: Condorcet, Lavoisier, La Fayette, Mirabeau, e ottenne poi il sostegno dello stesso Robespierre. Nel giro di qualche anno si ebbero i primi decreti ufficiali: nel 1792 quello della Danimarca, di abolizione della tratta, destinato a entrare in vigore nel 1803, e nel 1794 quello francese che stabiliva l’abolizione della schiavitù e l’estensione della cittadinanza agli schiavi affrancati.
Da menzionare poi le rivolte degli schiavi, di cui la storia è costellata. Una delle prime ribellioni organizzate di cui si ha notizia avvenne in Carolina del Sud già nel 1526. Molte se ne registrarono anche alle Antille e in Brasile. Nelle piantagioni si diffondono leggende che raccontano la storia della repubblica dello Zambia, o quella della città di Palmarès, nella foresta amazzonica, dove nel corso del Seicento si costituì una comunità autosufficiente di schiavi fuggiaschi, in grado di resistere per quasi un secolo ai tentativi di repressione armata dei piantatori e del governo brasiliano. La più nota delle rivolte avvenute nell’arco di tempo considerato è quella del 1793, a Santo Domingo, colonia francese, guidata dallo schiavo Toussaint Louverture, il quale riuscì a costituire uno Stato indipendente e a mantenerlo in vita fino al 1802; fu questo episodio a offrire agli abolizionisti francesi l’occasione per proporre alla Convenzione il decreto del 1794.

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