La protesta di piazza Tien an Men

15 aprile 1989 – Inizia la protesta di piazza Tien an Men

Dopo la morte di Mao Tse-tung (1976), si aprì per la Cina un periodo nuovo. I dirigenti politici avviarono la campagna delle «quattro modernizzazioni» (dell’industria, dell’agricoltura, della ricerca scientifica, dell’esercito) nel tentativo di modernizzare il Paese, aprirlo al libero mercato e agli scambi commerciali con l’Occidente.

Dopo la morte di Mao (Shaoshan, 26 dicembre 1893 – Pechino, 9 settembre 1976), la condanna ufficiale dell’esperienza rivoluzionaria fu accompagnata dalla riabilitazione delle vittime e dei perseguitati, tra cui anche l’ormai anziano dirigente Deng Xiaoping. In pochi anni Deng riuscì a imporsi alla guida del Paese e, facendo propria la strategia già indicata in precedenza dall’ex ministro degli Esteri Zhou Enlai, varò un programma di radicali riforme economiche che introdussero i principi tipici di un’economia di mercato.

Nel settore agricolo l’impianto collettivistico fu smantellato e la terra ridistribuita, in affitto, alle famiglie contadine, che poterono così venderne liberamente i prodotti. L’importazione dall’estero di tecnologie avanzate fu un ulteriore stimolo alla crescita dell’agricoltura. Questo processo di modernizzazione coinvolse anche l’industria, favorita dall’apertura indotta dall’adozione dei principi propri dell’economia di mercato, come anche dal ripristino dei rapporti commerciali con l’estero, dall’abbandono della pianificazione centralizzata e dalla cessione in affitto di molte imprese pubbliche ai privati. Nel decennio tra gli anni Ottanta e Novanta la Repubblica Popolare Cinese da lui guidata restaurò relazioni strategiche e geopolitiche con l’Unione Sovietica, abbandonando la “teoria dei tre mondi”, antisovietica e di ascendenza maoista.

La liberalizzazione sopracitata dell’economia non portò tuttavia all’introduzione di riforme sul piano politico, dove vennero ribaditi la centralità del Partito comunista e la fedeltà ai principi del socialismo. Studenti e intellettuali chiedevano l’avvio di una «quinta modernizzazione», poiché l’apertura all’Occidente aveva alimentato il loro desiderio di libertà e di democrazia. Il governo comunista, però, respinse ogni richiesta di trasformare in senso democratico il sistema politico del Paese.

Nel 1989, quando decine di migliaia di studenti si riunirono a Pechino nella piazza Tien an Men per chiedere l’avvio formale del processo di democratizzazione, il governo soffocò la protesta con estrema durezza, provocando centinaia di vittime tra i manifestanti coinvolti. Celebre l’immagine che raffigura un coraggioso studente che sbarra la strada a una colonna di carri armati avanzante.

Due eventi in particolare fecero esplodere la protesta studentesca: la morte dell’esponente riformista Hu YaoBang, costretto anni prima dai conservatori a dimettersi dalla carica di primo ministro per aver appoggiato i movimenti democratici, e, in maggio, la visita a Pechino dell’allora presidente russo Michail Sergeevič Gorbačëv, ritenuto il simbolo della democratizzazione dei regimi comunisti.

La visita di Gorbačëv costituì per gli studenti l’occasione per rendere visibili le loro richieste al mondo intero. Così, quasi un milione di universitari di Pechino si riversò nella Piazza Tien an Men, davanti alla Città Proibita (antica residenza degli imperatori), per chiedere l’abolizione di ogni forma di dispotismo e una maggiore libertà politica. Alle manifestazioni nella piazza, che durarono quaranta giorni, si unirono via via operai, impiegati, giornalisti, imprenditori.

Il 13 maggio 1989, al rifiuto del governo di qualsiasi forma di dialogo, un gruppo di studenti, davanti alle telecamere, proclamò uno sciopero della fame e innalzò nella piazza un’enorme statua ispirata alla Statua della Libertà statunitense. Una settimana dopo i dirigenti comunisti, sempre più preoccupati per l’estendersi delle proteste anche ad altre città della Cina, proclamarono la legge marziale e, di conseguenza, nella piazza comparvero dei carri armati. La dura presa di posizione del regime, tuttavia, non fermò la protesta.

Nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1989 i militari accerchiarono con mezzi blindati piazza Tien an Men. Il giorno seguente aprirono il fuoco contro i dimostranti, provocando un massacro: molti furono schiacciati dai cingolati, altri furono gravemente feriti durante i violenti scontri con l’esercito. I dati sulle vittime sono controversi, ma comunque ben diversi da quelli forniti dai dirigenti cinesi: il governo dichiarò la morte di 200 civili e 100 soldati, cifra successivamente ridotta a una decina; la Croce Rossa cinese parlò di 2600 morti e 30.000 feriti, mentre le stime più alte fanno salire a 12000 il numero delle vittime.

Nei giorni successivi alla strage il governò scatenò una feroce caccia ai dirigenti del movimento studentesco e agli intellettuali che lo avevano sostenuto. I gruppi popolari che si erano scontrati con i militari furono puniti con inaudita crudeltà; molti dissidenti furono fucilati sui posti di lavoro. Per impedire la diffusione delle notizie e delle immagini, fu attuato un severissimo controllo sugli organi di stampa cinesi, e proibito l’ingresso nel Paese ai giornalisti stranieri.

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