La Prima Guerra del Golfo

28 Febbraio 1991: si conclude la Prima Guerra del Golfo tra Iraq e Kuwait.

Per Prima Guerra del Golfo intendiamo quel conflitto militare che oppose l’Iraq ad una coalizione di Stati composta da 35 stati entità nazionali, formatasi sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti. L’obiettivo era quello di restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait dopo che era stato invaso e annesso dall’Iraq. Questo confronto bellico fu un vero e proprio evento mediatico, il quale segnò uno spartiacque nella storia dei mass media; da quel momento, difatti, ci fu un vero e proprio cambiamento nella percezione della guerra da parte del pubblico spettatore, che si troverà, suo malgrado, sempre più coinvolto emotivamente all’interno dei vari conflitti.

La Guerra del Golfo fu definita come la “Prima Guerra del Villaggio Globale”.

Diverse furono le motivazioni alla base dello scoppio del conflitto. Gli antecedenti più immediati della crisi che portò nel gennaio 1991 alla guerra tra la Repubblica Irachena da un lato, e gli Stati Uniti e i loro alleati dall’altro, possono essere attendibilmente fatti risalire alla primavera del 1990. In tale periodo si verificarono diversi episodi giudicati unanimemente come mosse concrete iniziali di quella drammatica partita che si sarebbe giocata di lì a poco. Da menzionare, per esempio: le dichiarazioni di Ṣaddām Ḥusayn del 2 aprile 1990, che mettevano in guardia Israele dal tentare attacchi proditori; il messaggio dello stesso Ṣaddām all’allora presidente della Repubblica Iraniana, H. Rafsanǧānī, che segnò un riavvicinamento tra due Stati nemici; la rottura dei colloqui in corso a Tunisi tra alcuni esponenti dell’OLP e l’ambasciatore statunitense (rottura che rivelò l’intenzione degli USA di rifiutare impegni con un’organizzazione che manteneva rapporti molto amichevoli con i dirigenti di Baghdād).

In quel contesto, già di per sé complicato, i dirigenti iracheni svilupparono un’articolata campagna di rivendicazioni economiche e territoriali nei confronti dell’emirato del Kuwait, ricchissimo staterello petrolifero prospiciente il Golfo e incuneato tra Iraq e Arabia Saudita. Tali rivendicazioni erano un misto di storiche pretese territoriali, dal momento che l’Iraq non aveva mai riconosciuto la specificità statuale kuwaitiana, considerata il frutto di intrighi colonialistici e post-colonialistici, e di pressanti richieste di sostegno economico. L’Iraq si trovava inoltre in una pesante situazione finanziaria a causa delle spese sostenute durante il conflitto con l’Iran e del calo del prezzo del petrolio, mentre il confinante emirato del Kuwait, dotato di enormi risorse monetarie, aveva tratto solo vantaggi dall’azione di Baghdād contro l’espansionismo islamico di Teherān.

Gli Stati Uniti, nonostante la prolungata cooperazione con Ṣaddām Ḥusayn in funzione anti-iraniana, non erano disposti, sotto la presidenza di G. Bush, a tollerare iniziative destabilizzanti, né avrebbero esitato a imporre l’ordine nel Golfo qualora si fosse rivelato necessario, anche in relazione al vuoto lasciato dal ripiegamento strategico dell’URSS.

Il 18 luglio 1990 l’Iraq inviò una serie di richieste al Kuwait: cancellare 30 miliardi di dollari di prestiti concessi durante la guerra; ottenere un risarcimento di 2,4 miliardi di dollari per il petrolio illegalmente estratto dai pozzi petroliferi iracheni situati lungo il confine; assumere il controllo delle isole Būbiyān e al-Warba; sostenere l’impegno per un mutamento degli orientamenti dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries).

A fronte del tentativo iracheno di ottenere consensi, prima nella maggioranza della Lega Araba, poi almeno da parte di alcuni stati, infine tra le masse popolari arabe, c’era l’impegno degli Stati Uniti, attraverso il Consiglio di sicurezza dell’ONU, di creare uno schieramento il più esteso possibile contro l’iniziativa irachena in essere. La sensazione era che si stesse andando incontro all’inevitabile.

Nel tardo pomeriggio del primo agosto del 1990, difatti, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Brent Scowcroft, raggiunse il presidente George Bush con un messaggio: il regime iracheno di Saddam Hussein si stava preparando a invadere il Kuwait. L’Iraq aveva schierato delle truppe vicino al confine, secondo l’intelligence un atto puramente dimostrativo per ottenere concessioni diplomatiche. Ma le ultime informazioni arrivate quel pomeriggio mostravano che la quantità di soldati mobilitati era troppo ingente per essere soltanto una dimostrazione di forza. Mentre Bush cercava inutilmente un modo di mettersi in contatto con il governo iracheno, arrivò la notizia che era nell’aria: le truppe irachene avevano oltrepassato il confine con il Kuwait. Nel Golfo Persico erano le due di notte del due agosto 1990.

Quel giorno cominciò il primo conflitto “in diretta TV”: una guerra le cui immagini per la prima volta furono mostrate sugli schermi dei televisori di tutto il mondo. Le prime immagini trasmesse furono quelle di quasi mezzo milione di profughi kuwaitiani che attraversavano il confine con l’Arabia Saudita per scappare dalle truppe irachene. L’opinione pubblica mondiale fu immediatamente colpita da quella che era a tutti gli effetti un’aggressione gratuita di uno stato sovrano, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite impose immediatamente importanti sanzioni economiche all’Iraq, con il voto favorevole sia della Cina che della Russia, due dei cinque membri permanenti con potere di veto.

L’ONU emanò immediatamente una risoluzione che intimava Baghdad al ritiro entro i suoi confini. Gli Stati Uniti risposero invece con un’operazione militare atta a proteggere i paesi del Golfo alleati, sopra tutti l’Arabia Saudita, nota come operazione “Desert Shield”, che vide il rapido invio di uomini e mezzi americani nel Golfo. Le truppe statunitensi furono inviate nell’Arabia il 7 agosto 1990. L’8 agosto l’Iraq dichiarò che parti del Kuwait sarebbero state annesse alla provincia di Bassora, mentre il resto avrebbe costituito la 19ª provincia dell’Iraq.

La Marina statunitense mobilitò due gruppi navali, le portaerei USS Dwight D. Eisenhower e la USS Independence. Un totale di 48 F-15 Eagle del 1st Fighter Wing alla base aerea di Langley in Virginia giunsero in Arabia Saudita, iniziando immediatamente pattugliamenti del confine iracheno per rilevare e prevenire avanzate irachene. Le truppe di terra raggiunsero le 500000 unità. Gran parte del materiale logistico venne trasportato per via aerea o tramite navi da carico veloci.

Tra le varie risoluzioni ONU, la più importante fu la numero 678, approvata dal Consiglio di Sicurezza il 29 novembre, che fissava l’ultimatum per la mezzanotte del 15 gennaio 1991 per il ritiro delle truppe irachene, ed erano autorizzati “tutti i mezzi necessari per sostenere e implementare la risoluzione 660”, una formula diplomatica che consisteva nell’approvazione dell’uso della forza.

Gli Stati Uniti assemblarono una coalizione di forze contro l’Iraq. Essa era costituita da 34 nazioni, tra cui: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Bahrain, Bangladesh, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Danimarca, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Grecia, Honduras, Italia, Kuwait, Marocco, Nuova Zelanda, Niger, Norvegia, Paesi Bassi, Oman, Portogallo, Qatar, Regno Unito, Senegal, Spagna, Sudafrica, Corea del Sud e gli stessi Stati Uniti d’America.

La campagna aerea durò cinque settimane, e comportò l’impiego più di duemila aerei americani e degli alleati. Furono sganciate quasi centomila tonnellate di bombe. L’esercito iracheno fu praticamente distrutto nel corso della campagna aerea, insieme a molte infrastrutture del Paese come ponti, strada e centrali elettriche. Almeno diecimila soldati iracheni furono uccisi nei bombardamenti, in particolare quando le colonne di soldati cominciarono a ritirarsi dal Kuwait e furono attaccate lungo quella che i piloti americano ribattezzarono “L’autostrada della morte”. Tra i due e i tremila civili furono uccisi negli attacchi aerei.

Il 24 febbraio cominciò l’operazione terrestre, la quale durò soltanto cento ore. Gli iracheni si arresero in massa in tutto il Kuwait e nelle zone dell’Iraq attaccate; soltanto piccoli gruppi organizzarono delle disperate sacche di resistenza. Hussein diede ordine alle truppe in ritirata di incendiare i pozzi di petrolio del Kuwait, una misura disperata. Il 28 febbraio le truppe della coalizione terminarono la liberazione del Paese, e il presidente Bush proclamò un cessate il fuoco unilaterale. Dal suo punto di vista, la guerra era stata un incredibile successo. Le perdite della coalizione ammontavano a poche centinaia di uomini tra morti e feriti, le perdite tra i civili iracheni erano state contenute e la stampa contribuì a dare del conflitto un’immagine più che positiva.

Con l’avvio a Baghdād di un relativo processo di liberalizzazione, che portò nel marzo alla formazione di un nuovo governo presieduto da Sa῾adūn Ḥammādī, al ridimensionamento del partito Ba῾th e al graduale superamento del sistema del partito unico, e con l’approvazione (3 aprile 1991) da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU della risoluzione n. 687 che imponeva lo smantellamento degli arsenali, il risarcimento dei danni, e lo stazionamento all’interno del confine con il Kuwait di truppe dell’ONU, il conflitto poteva dirsi concluso e aperta la fase del dopoguerra.

Con la stessa risoluzione, fu mantenuto un rigido regime di embargo solo parzialmente ridotto con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza del 15 agosto, che autorizzarono l’Iraq, sia pure sotto controllo dell’ONU e devolvendo il 30% degli introiti al rimborso dei danni di guerra, all’estrazione e allo smercio di petrolio per 1,6 miliardi di dollari.

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