La nascita del primo governo Mussolini

31 Ottobre 1922: al termine della Marcia su Roma, Benito Mussolini forma il suo primo Governo con popolari, liberali, un radicale e con Armando Diaz e Thaon di Revel.

Mussolini, insediandosi a capo del Governo, diventò il più giovane Primo Ministro d’Italia. Nella Camera dei deputati ottenne la fiducia con 306 voti a favore, 116 contrari (socialisti, comunisti e qualche isolato) e 7 astenuti (rappresentanti delle minoranze nazionali), nel Senato con 19 voti contrari. Tra i favorevoli risultarono Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Luigi Facta e Antonio Salandra, mentre Francesco Saverio Nitti abbandonò l’aula per protesta.

I Fatti Antecedenti

“Mi creda, maestà, basterebbero quattro cannonate a farli scappare come lepri”. Così esordì Luigi Facta, Primo Ministro (dimissionario) del Regno, la mattina del 28 ottobre del 1922, quando venne ricevuto dal re Vittorio Emanuele III. La vicenda terminò con il rifiuto del sovrano di controfirmare lo Stato d’Assedio, approvato dal consiglio dei Ministri all’alba del 28 ottobre, e con le dimissioni di Facta. Questo accadde in quegli ultimi quattro, caldissimi, giorni d’ottobre.

La politica italiana del primo dopoguerra versava in una situazione di crisi profonda, dalla quale stentava ad emergere una figura in grado di ricompattare quella spaccatura sociale apertasi nel Paese dalla fine della Grande Guerra. I lavori parlamentari erano fermi dal mese di agosto, ovvero da quando il governo Facta, sfiduciato in luglio, si vide costretto – non riuscendo il re a trovare un degno sostituto che soddisfacesse la coalizione liberale – a ripresentarsi davanti alle Camere per chiedere una nuova fiducia a tempo. Le piazze di tutta Italia diventavano intanto sempre più calde, e gli scontri più aspri, spostando di fatto il confronto politico dal Parlamento alle strade (occupazione del Comune di Milano, assalto alla sede dell’Avanti, scontri fra fascisti e comunisti in Emilia-Romagna).

All’inizio del mese di ottobre, Mussolini pubblicò sul Popolo d’Italia il “Regolamento della Milizia”: i fascisti, approfittando della totale incapacità e della prontezza a reagire dello Stato, diedero vita ad un vero e proprio esercito privato. Tre settimane più tardi (23-24 ottobre), si tenne a Napoli un grande raduno di camicie nere durante il quale Mussolini istituì il famoso “quadrumvirato”, composto da Emilio De Bono, Michele Bianchi, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo, che ebbe il compito di coordinare l’imminente Marcia su Roma.

Facta, informato anche da Salandra di una possibile convergenza fascista sulla Capitale, credeva che fosse tutto un bluff e, sperando ancora di raggiungere un’intesa con Mussolini, telegrafò al re che “era scongiurato ogni pericolo di una possibile marcia su Roma”. Dovette però fare ammenda neanche due giorni dopo, quando arrivarono nella Capitale notizie precise in merito alla mobilitazione. Il re, trovandosi al momento dei fatti nella sua residenza di caccia di San Rossore, fece ritorno a Roma il 27 ottobre sera per mettere in atto un piano difensivo dell’Urbe, approvando solo a parole un possibile programma di Stato d’Assedio. Si limitò, però, ad interrompere tutte le linee ferroviarie e le strade che portavano a Roma.

Nell’illusoria speranza di raggiungere un’intesa che potesse portare alla nascita di un nuovo governo, stavolta comprendente anche i ministri fascisti, Facta tentò un’ultima, disperata mossa: il 27 ottobre informò il sovrano di aver ritirato le deleghe dei suoi ministri e che aveva intenzione di presentarsi molto presto al Quirinale con la nuova lista di personalità. Il ministero Facta aveva così formalizzato il suo status di governo dimissionario. Nel frattempo, i quadriumviri, riunitisi a Perugia, preparavano le colonne fasciste per la discesa sulla Città Eterna.

Alle sei del mattino del 28 ottobre si riunì d’urgenza al Viminale – allora sede della Presidenza del Consiglio – il consiglio dei Ministri per proclamare lo Stato d’Assedio. Il proclama fu stilato dell’allora ministro dell’Interno Paolino Taddei. Questo venne immediatamente approvato e diramato verso tutte le prefetture, con l’ordine preciso di mantenere a tutti i costi l’ordine pubblico. Mancava però, come per ogni provvedimento, l’avallo del re, cosa di cui Facta si preoccupò solo a cose fatte.

Facta raggiunse il Quirinale verso le 9 del mattino per la controfirma, ma ricevette un secco rifiuto del monarca, riassumibile in queste parole, presumibilmente pronunciate da Vittorio Emanuele III: “Queste decisioni spettano soltanto a me. Dopo lo Stato d’Assedio non c’è che la guerra civile. Ora qualcuno si deve sacrificare”. Il sovrano si rifiutò dunque di firmare lo Stato d’Assedio, poiché gli venne proposto da un governo oramai dimissionario e inadeguato a fronteggiare una situazione di quella portata.

Diversi storici ritengono inoltre che ci fosse la forte preoccupazione da parte del re nei confronti dell’atteggiamento che avrebbero assunto le forze armate nel caso in cui avesse firmato lo Stato d’Assedio. Era nota, infatti, la simpatia che tra queste aveva il fascismo. Emblematica e di straordinaria importanza fu la frase pronunciata dal Capo di Stato Maggiore Diaz al re, quando questi gli chiese se l’esercito sarebbe rimasto fedele alla corona in caso di repressione delle camicie nere: “L’esercito farà il suo dovere, come sempre, ma è meglio non metterlo alla prova”.

Scongiurato lo scontro armato, Facta si vide costretto a rimettere l’incarico nelle mani del re che procedette, come da prassi, alle consultazioni. Le squadre fasciste nel frattempo erano rimaste bloccate, per via delle interruzioni stradali messe in atto dai militari, fuori Roma. Mussolini, invece, si trovava nella sede del suo giornale a Milano, dove seguiva passo passo l’evolversi dei fatti.

Consigliato dai vertici militari e dai massimi esponenti della politica liberale, come Orlando, Giolitti e De Nicola, in un primo momento il re affidò l’incarico di formare un nuovo governo ad Antonio Salandra, il quale avrebbe dovuto trovare un’intesa con Mussolini. Ma il futuro duce, spalleggiato anche dai grandi industriali, rimandò al mittente tale proposta: “Non ho fatto quello che ho fatto per provocare la risurrezione di don Antonio Salandra”.

Il sovrano si vide dunque costretto a chiamare Mussolini per affidargli il compito di formare un nuovo governo. Quest’ultimo giunse a Roma in treno il 30 ottobre 1922, e si presentò al Quirinale, dove accettò l’incarico offertogli dal re. Il giorno dopo presentò la lista dei ministri – di cui solo quattro fascisti – mostrando così la volontà così di costituire un esecutivo di unità nazionale, lasciando fuori socialisti, repubblicani e comunisti. La sera stesse avvenne il giuramento e la formalizzazione del nuovo governo, che avrebbe ottenuto un’ampia fiducia in Parlamento sedici giorni più tardi.

Le camicie nere furono fatte passare, e poterono così entrare nella capitale. I cortei di festa sciamarono per le vie di Roma e per il saluto al sovrano la mattina del 31 ottobre.

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