Le colonie americane: un’appendice dell’Europa

Secondo una recente interpretazione storiografica, la seconda metà del secolo XVIII apre una serie di rivoluzioni che investono sia il continente europeo sia quello americano e si concludono nel 1848, con la definitiva vittoria della borghesia. Se la più nota di queste rivoluzioni è quella francese, la prima in ordine di tempo è quella che nel 1776 portò alla secessione delle tredici colonie inglesi d’America dall’Inghilterra e dette il via alla creazione degli Stati Uniti.

Queste tredici colonie rappresentavano quell’unica grande area che era stata in grado di uscire da quella condizione di sottosviluppo che caratterizzava normalmente tutte le Nazioni sottoposte a dominio coloniale. A ben guardare, in effetti, questi territori si resero protagonisti sin da subito di una crescita sociale che faceva invidia a qualsiasi Paese europeo. La disponibilità quasi illimitata di terre a basso prezzo, i bassi costi della manodopera, l’ampio mercato di contrabbando, i canali privilegiati di scambio con la madrepatria e una pur limitata libertà di autogoverno avevano permesso anche a individui di modesta condizione di salire rapidamente verso i vertici della scala sociale. La relativa libertà di stampa e di associazione aveva inoltre creato le condizioni per la nascita di un’opinione pubblica formata e informata dai giornali e da pubblicazioni politiche. All’eccezionalità di queste circostanze aveva certamente contribuito un sentimento d’orgoglio nazionale, maturato tra i coloni anche grazie a quella consapevolezza di appartenere a un grande impero, seppur in qualità di sudditi periferici. Le colonie avevano conosciuto una notevole crescita demografica, dovuta all’emigrazione diffusa proveniente dalla Gran Bretagna, a sua volta sollecitata dalla grande disponibilità di terra a basso prezzo. Le colonie meridionali (Maryland, Virginia, Carolina del Nord, Carolina del Sud, Georgia), a dominante religione anglicana, fondavano la loro economia su grandi piantagioni finalizzate all’esportazione internazionale di cotone, tabacco, riso e su una diffusa piccola proprietà che forniva generi di sussistenza ai grandi proprietari. Circa la metà della popolazione era rappresentata da schiavi di origine africana. Nelle colonie settentrionali della fascia atlantica (Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island, Connecticut), a prevalente religione puritana, l’economia era piuttosto differenziata. Mancava qui un’oligarchia fondiaria del tipo di quella dominante nelle colonie del Sud, mentre prevaleva la piccola proprietà. La grandissimi disponibilità di legname aveva favorito la nascita di un’industria cantieristica che produceva molte navi per la flotta britannica. Inoltre i loro porti (Boston, in particolare) erano centri di intensi traffici internazionali legali (pellicce, pesce, zucchero, prodotti agricoli) e illegali (il contrabbando di rhum, soprattutto), questi ultimi finalizzati ad aggirare il divieto britannico di commerciare con altre colonie senza l’intermediazione di agenti inglesi. Le colonie centrali (New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware) erano socialmente composte da una maggioranza di immigrati non inglesi (tedeschi e olandesi, soprattutto). Anche la loro economia era prevalentemente basata sull’esportazione di cereali, legumi, pesce, pellicce e sulla piccola proprietà.

Tutte le colonie erano naturalmente sottoposte ai rigidi vincoli mercantilistici imposti dalla madrepatria. Le colonie dovevano, in particolare, intrattenere scambi mercantili esclusivamente con la Gran Bretagna. Quest’ultima inviava nelle colonie soprattutto prodotti industriali contro indaco, tabacco, riso, zucchero e altri prodotti ricevuti in cambio dei marcanti nordamericani. Si trattava comunque di una situazione di relativo equilibrio, favorita anche dall’atteggiamento di tolleranza manifestato dal governo inglese nei confronti del traffico di contrabbando nordamericano. Tale situazione cominciò a cambiare quando, dopo la conclusione della guerra dei Sette anni, la Gran Bretagna, alle prese con gravi e urgenti problemi di risanamento del bilancio, impose un aumento del prelievo tributario e una restrizione ai traffici illegali. Il Parlamento di Londra, a tale scopo, votò due norme impopolari, la Legge sullo zucchero (Sugar Act, 1764), che incrementava i dazi sullo zucchero d’importazione americana, e quindi la Legge sul bollo (Stamp Act, 1765), che faceva gravare una ulteriore imposta sui giornali, libri e documenti ufficiali. La Gran Bretagna rimase inoltre sorda alle richieste di molte colonie di permettere l’espansione territoriale verso Ovest per acquisire altre terre da offrire in vendita ai nuovi immigrati. La situazione stava precipitando.

Precedente La questione morale: schiavisti e abolizionisti Successivo La rivoluzione dei coloni d'America