La Grande Guerra: l’ora di Caporetto

Prima guerra mondiale: il Fronte Italiano.

L’ora di Caporetto nel diario di guerra di un combattente.

Era il 25 ottobre 1917 quando giunse dal Comando della Brigata Genova al comandante della 47° Compagnia Mitraglieri, tenente Cola, e al vicecomandante, tenente Gadda, l’ordine di ritirarsi il più rapidamente possibile dalla posizione del Monte Nero, conquistata dagli Alpini e tenacemente mantenuta con due anni di sacrifici e sangue. Verso le quattro iniziò la discesa in direzione dell’Isonzo. Il ponte di Caporetto saltò nel pomeriggio del 24, il ponte di Ternova alle 22 dello stesso giorno. Si tentò, senza successo, il passaggio sulla destra dell’Isonzo attraverso una passerella improvvisata. Alle 13,20 del giorno 25 la Compagnia di Cola e Gadda distrusse le proprie armi pesanti e alzò bandiera bianca: era giunta l’ora della resa.

Gadda, nel suo personale taccuino, comparso sul quotidiano La Repubblica nell’ottobre 1987, racconta il suo ultimo giorno di combattente in quel di Caporetto:

“[…] Mandai Sassella (l’attendente di Gadda) a prendere il 2° sacco a pelo, che m’aveva portato giù la sera con la corvée del rancio e che aveva lasciato in caverna di Cola (comandante della Compagnia Mitraglieri). Poco dopo egli tornò con un altro, recandomi l’ordine di ritirarmi dalla posizione il più presto possibile.

Quest’ordine mi fulminò, mi stordì: ricordo che la mia mente fu percossa da un’idea come una scena riempita da un lampo: “Lasciare il Monte Nero!” (Monte nelle Alpi Giulie, conquistato due anni prima a prezzo di gravi perdite), questa mitica rupe, costata tanto, e presso di lei il Vrata, il Vršič, lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m’annientò. Ma Sassella incalzava: “Signor tenente, bisogna far presto, ha detto il tenente Cola di far presto” e incitò poi per conto suo gli altri soldati. Mi riscossi: credo di non esser stato dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva.

Diedi l’ordine a Remondino, il vecchio alpino piemontese, che rimase pure percosso, addolorato. “Ma qui c’è qualche tradimento”, esclamò, “ma non è possibile”. Poi andai nell’altra caverna e pur là diedi l’ordine. […]

Ero attonito: i soldati erano pure costernati. Come potei raccolsi tutta la sezione, e a uno a uno li feci partire: Sassella chiamava. Io mi misi in coda, col cuore spezzato, la mente fulminata dall’orribile pensiero della ritirata, e andammo… Gli artiglieri dell’Ottava batteria s’eran già ritirati, dopo aver guastato alla peggio i loro pezzi, credo togliendo gli otturatori. Cola in testa, io in coda, tutti a uno a uno, prendemmo la strada d’arroccamento con l’intenzione di raggiungere Jezerca-Magozo e poi Ternova. L’ordine di ritirarsi fu trasmesso all’Ottavo battaglione dal Comando della Brigata Genova oltre la mezzanotte perché lo comunicasse anche alle comp. mitragliatrici. Noi lo ricevemmo verso le tre e solo verso le quattro del mattino del 25 potemmo partire.

Nella notte silenzio: bagliori in fondo valle e talora grandi esplosioni: i nostri incendiavano ritirandosi tutto ciò che potevano. […] – Il cuore era spezzato. L’orrore e l’angoscia di quei terribili momenti dovevano esser superati. Verso l’alba il tempo si rasserenò.

25 ottobre, tra le 11 e le 13,30 […]. Mi raccolsi, nell’amarezza, e misurai la situazione: un migliaio circa di fuggiaschi disordinati e privi d’armi, cioè totalmente liberi da ogni peso, si pigiavano a rischi di precipitare nel fiume verso la passerella [una passerella improvvisata, larga una sola tavola, che permetteva il passaggio di un solo uomo per volta, in circa 2 minuti]; il fiume non poteva guardarsi in alcun modo; l’Isonzo, sopra Tolmino e anche ad Auzza, Canale ecc. ha un letto stretto (20 metri circa) e rive precipiti e profonde (5-6 e più metri). Il fondo non è visibile, ma l’azzurro cupo testimonia della profondità: la corrente è velocissima, torrentizia. Insomma esso ha un carattere affatto diverso dagli altri fiumi della pianura veneta, larghi, ghiaiosi, lenti. Un tal fiume, in tal punto, non è guadabile in nessun modo, neppure a un nuotatore; tanto meno poi vestito o con armi […].

Come la sorte s’era atrocemente giocata di me! Non l’onore del combattimento e della lotta, ma l’umiliazione della ritirata, l’abbandono di tanta roba, e ora questo maledetto Isonzo! Quanti ponti saltati…”.

Qui riporto quanto scritto da Sandra Bonsanti (giornalista e scrittrice) per La Repubblica:

“Il tenente degli alpini Carlo Emilio Gadda fu travolto con la sua compagnia di mitraglieri nella disfatta di Caporetto. Mentre la battaglia infuriava e al momento stesso della resa (ore 13,20 del 25 ottobre 1917) al di là della passerella sull’Isonzo nel prato dove i tedeschi assistevano all’ultima adunata dei nostri prigionieri, Gadda segnò su un taccuino alcuni appunti. Dieci giorni dopo, nel campo di concentramento di Rastatt, cominciò a redigere il diario-cronaca di quei giorni e della sconfitta. Finché visse, Gadda non volle che questo taccuino vedesse mai la luce. In esso erano narrati i momenti di una tragedia nazionale, che lui continuò a soffrire come sua propria.

Ma soprattutto egli sapeva, e temeva, che la descrizione di quella tragedia stessa, col ricordo ancora vivissimo e preciso, avrebbe potuto rinverdire le polemiche sulle responsabilità della disfatta, sul grado di conoscenza da parte dei Comandi del disastro cui le nostre truppe andavano incontro. Così Gadda affidò il taccuino più prezioso del suo Giornale di prigionia a mio padre, Alessandro Bonsanti, che lo custodì e lo fece copiare da mia madre. Un lavoro molto difficile: il tenente prigioniero degli austriaci aveva escogitato molte piccole e grandi astuzie per impedire loro di leggere il testo, qualora ne fossero venuti in possesso.

Mio padre, sopravvissuto a Gadda per dieci anni, ritenne vincolante anche per sé il desiderio del suo grande amico; così come non volle mai pubblicare le lettere che testimoniano la storia della loro amicizia. Il settantesimo anniversario di quella data sacra per l’Italia, e l’imminente pubblicazione da parte dell’editore Garzanti dell’opera omnia di Carlo Emilio Gadda, hanno convinto mia madre, mio fratello e me che non fosse possibile aspettare oltre. La storia di quel supplizio, che segnò per sempre la vita e i pensieri dello scrittore, completano quel Giornale di guerra e di prigionia che, come accadde per diverse altre opere, Gadda si decise a pubblicare soltanto negli anni Cinquanta per le insistenze di mio padre che riuscì, come ha scritto Silvio Guarnieri, a vincere miracolosamente le reticenze e i timori dell’amico.

I due scrittori, oltre che dalla grande amicizia, furono legati anche dal segreto di Caporetto. Finché gli fu consentito, mio padre curò le angosce dell’amico, che così violente dovevano riemergere quando i tedeschi ricomparvero nella sua vita. Le sofferenze del ’17-18, la fame, le morti di allora tormentarono Gadda nel ’44, nei giorni fiorentini dell’occupazione tedesca, quando sotto le bombe attraversava la città per dividere con noi la zuppa di rape nei sotterranei del Vieusseux, a Palazzo Strozzi. La sofferenza di quell’uomo così grande e così impacciato, il tormento del suo sguardo trovano nella lettura della cronaca di Caporetto una spiegazione definitiva.

Pochi giorni dopo la morte di Gadda, nel ’73, mio padre scrisse: Bisogna adattarsi a considerarsi postumi degli amici oltreché di se stessi; chi si dispone di fronte a Gadda come se tutto fosse cominciato trent’anni fa, è nato alla storia in quel momento, e niente è più difficile del resto di convincere la gente che il mondo esisteva anche prima. La domanda essenziale è: capiranno meglio i nuovi, i freschi, coloro che si pongono davanti al fenomeno liberi dai preconcetti d’un passato cui non parteciparono? I vecchi amici, come i familiari, possono diventare l’ingombro più pesante. Si dice tante volte: vorrei arrivare per la prima volta da turista in questa città dove sono nato e abito da sempre, e sappiamo che è un desiderio irrealizzabile. Purtroppo, un Gadda inedito non potremo mai conoscerlo, noi che venimmo su con lui e delibammo parola per parola sul loro nascere scritti e idiosincrasie”.

La tragedia di Caporetto.

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