La formale annessione di Fiume all’Italia

Fiume (attualmente) è la terza città della Croazia per popolazione, dopo Zagabria e Spalato. Situata sull’Adriatico (Golfo del Quarnaro), è capoluogo della regione litoraneo-montana.

La Questione Fiumana – Il contesto

Il dopoguerra, in Italia, fu caratterizzato dalla crisi dello Stato liberale; questo non riusciva più a rispondere dei cambiamenti che si stavano verificando in un continente stravolto dalla terribile esperienza bellica. Tra le potenze vincitrici, l’Italia fu indubbiamente quella che più risentì degli effettivi negativi del conflitto (deficit statale allarmante, inflazione fuori controllo, aumento dell’imposizione fiscale, senso di insicurezza predominante).

Crisi dei ceti medi, crollo della lira sui mercati valutari, atmosfera di ostilità diffusa nei confronti dei reduci di guerra, disoccupazione a livelli impressionanti, tensioni sociali nelle campagne e nelle fabbriche. Una situazione all’orlo del collasso. In quegli anni convulsi emerse anche una nuova forza politica che caratterizzerà in maniera decisiva le future sorti del Paese: il fascismo. Questo nacque ufficialmente a Milano il 23 marzo del 1919, quando vennero fondati i Fasci italiani di combattimento, eredi diretti dei Fasci di azione rivoluzionaria sorti nel 1915, per iniziativa di Benito Mussolini. In esso confluirono ex combattenti (arditi, ufficiali e volontari), sindacalisti rivoluzionari ed ex socialisti, tutti accomunati dal disprezzo per le istituzioni liberal-democratiche.

Si diffuse largamente il mito della “vittoria mutilata”. Alla conferenza di Versailles l’Italia rivestì un ruolo del tutto subalterno, e ciò si rese evidente quando venne affrontato il problema della dissoluzione dell’Austria-Ungheria. L’Italia si pose nella posizione di chi ha soltanto qualcosa da chiedere, frettolosa di riscuotere il suo prezzo per poter poi voltare le spalle e non curarsi d’altro. La richiesta poggiava su un’applicazione integrale del patto di Londra del 1915, che avrebbe consentito all’Italia di ottenere buona parte della Dalmazia con le isole adiacenti, a cui si aggiungevano le pretese italiane in Anatolia, la negazione di compensi coloniali in Africa e la risistemazione dell’Adriatico meridionale ai danni dell’Italia; a ciò si aggiunse la volontà di ottenere anche la città di Fiume a motivo della prevalenza numerica dell’etnia italiana.

I contrasti con Thomas Woodrow Wilson si rivelarono netti: il presidente statunitense non si mostrò affatto disponibile ad una applicazione integrale del patto di Londra e non era propenso ad accettare le richieste di Roma a spese degli Slavi, in quanto Fiume veniva considerata essenziale all’economia della Jugoslavia. Inoltre, la Francia non vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana, poiché avrebbe consentito all’Italia di controllare i traffici provenienti dal Danubio. Il risultato fu che le potenze dell’Intesa opposero un netto rifiuto e ritrattarono parte di quanto promesso nel 1915.

L’indignazione degli ambienti nazionalisti si riversò tanto sugli ex alleati quanto sui dirigenti liberali, accusati di non saper tutelare gli interessi della nazione. Orlando venne sostituito da Nitti. Il risentimento per la “vittoria mutilata” fu raccolto abilmente da Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938), poeta-vate nazionale. Il 12 settembre 1919, alla testa di 25000 legionari (volontari e ribelli militari), entrò a Fiume, proclamandone l’annessione all’Italia. L’Adriatico era sempre stato molto a cuore a D’Annunzio che, a guerra conclusa, si presentò come il più appassionato e autorevole sostenitore di un “Imperialismo Adriatico”.

“All’alba di venerdì 12 settembre, sugli autocarri prelevati all’autoparco di Palmanova, i granatieri del maggiore Reina, guidati da Gabriele D’Annunzio, lasciavano Ronchi dirigendosi verso Fiume. Sulla lunga strada polverosa, attraverso tutto il Carso, la marcia di D’Annunzio non trovò ostacoli. Le truppe che la colonna via via incontrava, i reparti che avrebbero dovuto impedirne il passaggio, quando non si univano ai granatieri ingrossando le forze dannunziane, facevano ala dando via libera e bene augurando al successo dell’impresa. Ordini di opporre resistenza armata certamente non vi furono e, al contrario, molte di quelle truppe erano già state guadagnate alla causa di D’Annunzio nei giorni precedenti […] Alle ore 11,45 D’Annunzio entra in Fiume accolto come un trionfatore. Il giorno seguente, alle ore 12, poco prima di far partenza con tutto il suo stato maggiore, il generale Pittaluga dichiarava formalmente sciolto il corpo di occupazione inter-alleato di Fiume di cui egli aveva il comando, e tutto il potere rimaneva di fatto nelle mani di Gabriele D’Annunzio”.

Quando D’Annunzio entrò a Fiume alla testa di un’imponente colonna corazzata composta da autocarri, automobili, carri armati e circa 2.250 uomini tra granatieri, artiglieri, Arditi e fanti, non un solo colpo fu sparato per tentare di arrestarne l’avanzata. Simbolicamente, il significato di tale impresa fu altissimo. Il movimento dannunziano rappresentò il segnale più allarmante della presenza ben radicata nella coscienza nazionale di un movimento sovvertitore che intendeva porre in crisi l’autorità dello stato e l’intero sistema politico e istituzionale. La marcia su Fiume può essere letta facilmente come il preludio del colpo di Stato attuato da Mussolini tre anni dopo, anch’esso vincente soprattutto grazie all’appoggio generalizzato di generali e ufficiali dell’esercito.

La caduta di Fiume

Per il governo fu un affare molto pericoloso. Quando i militari di guardia al confine non solo non fermarono D’Annunzio, ma addirittura si unirono alle sue file, molti a Roma cominciarono a temere che fosse ormai prossimo un colpo di stato. In realtà furono solo poche centinaia i soldati che si schierarono con D’Annunzio. Nonostante questo, il generale Pietro Badoglio scrisse al governo che, se fosse stata ordinata l’occupazione di Fiume, non avrebbe potuto rispondere della fedeltà delle sue truppe.

Il governo Nitti trattò quindi D’Annunzio con grande prudenza. Non poteva – ovviamente – dargli tutto ciò che desiderava, cioè l’annessione di Fiume all’Italia, visto che questo avrebbe violato i trattati usciti dalla Conferenza di Parigi, ma cercò anche di non provocarlo. L’esercito non venne inviato a occupare nuovamente Fiume, e D’Annunzio venne considerato un interlocutore legittimo per le trattative con cui cercare di risolvere la crisi.

Nel maggio 1920 cadde Nitti, che venne sostituito da un governo molto più forte, guidato Giovanni Giolitti, uno dei politici italiani più importanti e famosi dell’epoca. Dopo il cambio di governo, D’Annunzio riconobbe che i tentativi di costringere l’Italia ad annettere Fiume erano ormai falliti, e nel settembre del 1920 fece approvare una costituzione che rendeva Fiume uno Stato indipendente. Di fatto il potere veniva esercitato da D’Annunzio e dai caporioni delle varie milizie. Fiume fu il primo “Stato” al mondo a riconoscere l’Unione Sovietica, nata proprio in quegli anni, e questo causò numerose incomprensioni tra D’Annunzio e gli altri membri del governo di Fiume. Per molti nazionalisti, infatti, il nemico principale erano proprio i socialisti e i comunisti russi.

Giolitti nel frattempo firmò con la Jugoslavia un trattato per mettere fine alla questione di Fiume: il trattato di Rapallo. La città avrebbe acquisito lo status di “città libera”, sottoposta a una specie di “tutela” italiana. Il trattato venne approvato anche da Mussolini e da molti nazionalisti italiani, che erano ormai stanchi delle eccentricità di D’Annunzio. Il 23 dicembre l’esercito italiano lanciò un ultimatum al Vate: entro il giorno successivo, D’Annunzio e i suoi uomini avrebbero dovuto abbandonare la città. D’Annunzio respinse l’ultimatum. L’esercitò italiano attaccò. Il 24 e il 25 dicembre ci furono scontri in cui morirono alcune decine di legionari e di soldati italiani. La corazzata italiana “Andrea Doria” sparò alcuni colpi di cannone che colpirono la residenza del governatore, dove risiedeva D’Annunzio. Pochi giorni dopo, il Vate firmò la resa della città.

Curiosamente, né per lui né per i suoi uomini ci furono conseguenze effettive. L’esercito italiano occupò la città, dove D’Annunzio rimase fino al 18 gennaio, quando decise di partire e di ritirarsi in una sorte di esilio volontario nella sua villa sul Lago di Garda. Lo Stato Libero di Fiume sopravvisse appena due anni alla bizzarra impresa del poeta. Nel gennaio del 1924 l’Italia e la Jugoslavia firmarono un trattato che divise il territorio di Fiume a metà. Il 16 marzo del 1924 re Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869 – Alessandria d’Egitto, 28 dicembre 1947) entrò a Fiume e proclamò la città parte del Regno d’Italia.

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