La dottrina dell’offensiva nel 1914

Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, tutte le grandi potenze belligeranti in Europa si mossero contemporaneamente all’offensiva. L’esercito austro-ungarico invase la Polonia, i Russi invasero la Prussia orientale, i Tedeschi andarono alla conquista della Francia attraverso il Belgio e i Francesi tentarono di riconquistare le ormai perdute provincie dell’Alsazia e della Lorena. Alla fine dell’anno (parliamo del 1914), tutte queste offensive erano state arrestate o respinte al prezzo di circa 900mila tra dispersi, prigionieri, feriti o morti.

Gli attacchi ripresero e continuarono per tutto il 1915, con anche l’Italia che iniziò ad affrontare l’Austria, ottenendo peraltro risultati disastrosi, e il 1916 non fu da meno, con l’attacco di Verdun (una delle più violente e sanguinose battaglie di tutto il Fronte Occidentale della Prima guerra mondiale) ad opera dei Tedeschi, e con la grande offensiva sulla Somme, la quale segnò l’entrata in guerra del nuovo esercito inglese. Le offensive cominciarono ad indebolirsi soltanto nel 1917, quando le truppe francesi, in seguito alla dolorosa offensiva di Nivelle dell’aprile, si rifiutarono di dar vita a nuovi attacchi e con l’Impero russo che crollò mestamente, spossato dal peso della guerra.

Tutti questi disastri, ai quali si aggiunse il fallimento dell’offensiva inglese su Passchendaele (la battaglia di Passchendaele è diventata, nella storiografia britannica, sinonimo di fiasco militare, mentre Basil Liddell Hart l’ha definita “il più triste dramma della storia militare inglese”), durata quattro mesi, dall’agosto al novembre del 1917, hanno lasciato un’immagine storica di cecità tattica e strategica senza eguali nella storia, immagine che neppure il successo delle offensive tedesche sul Fronte Orientale e gli attacchi finale degli Alleati sul Fronte Occidentale, nel 1918, sono riusciti a riscattare.

Tuttavia, a ben guardare, i capi militari che pianificarono queste operazioni e i capi politici che le sanzionarono non erano in alcun modo ciechi riguardo alle possibili conseguenze degli attacchi cui i loro eserciti stavano dando vita, né tantomeno male informati circa la potenza difensiva delle armi del XX secolo. Nessuno di loro si aspettava di poter vincere la guerra senza subire gravi perdite. Questo scrisse il generale Friedrich von Bernhardi, generale e storico militare prussiano: “Chiunque pensasse che in una guerra moderna si possa ottenere un grande successo tattico senza mettere a repentaglio un alto numero di vite umane, commetterebbe un grave errore […] La paura di perdite sarà sempre garanzia di fallimento, mentre possiamo sostenere con certezza che le truppe che non temono perdite manterranno sempre un’enorme superiorità su quelle più avare di sangue”.

Gli specialisti di altre nazioni non la pensavano diversamente. “Il successo di un assalto dipende tutto da come prima addestri i tuoi soldati, se insegni loro a sapere come morire o evitare la morte”, scrisse il colonnello britannico F.N. Maude, “nel secondo caso, nulla può esserti d’aiuto e sarebbe stato più saggio non andare in guerra”. Sovente venivano citate le crude parole pronunciate da Carl von Clausewitz, generale, scrittore e teorico militare prussiano: “Il fatto che il massacro sia uno spettacolo spaventoso ci deve indurre a prendere la guerra molto più seriamente e non a trovare una scusa per spuntare a poco a poco le nostre spade nel nome dell’umanità”.

Precedente La formale annessione di Fiume all'Italia Successivo La Guerra d'Algeria