Per ridurre il tempo e i costi l’impresario suddivise la produzione in una serie di fasi semplificate, e ad ognuno degli operai venne affidato una fase unica e ben specifica dell’intero processo: ciò consentì di pervenire a un alto grado di specializzazione e di rapidità non raggiungibile da chi attende a un lavoro complesso.
Ma la divisione del lavoro, inconcepibile prima dell’avvento della macchina, tornava ad esclusivo vantaggio del padrone, mentre all’operaio veniva tolta definitivamente la possibilità di partecipare consapevolmente all’intero processo produttivo e di riconoscere nel prodotto finito il frutto delle proprie fatiche. In sostanza, l’abilità lavorativa del singolo, che giocava un ruolo primario nell’antica produzione artigianale, non ebbe più alcuna rilevanza. Questa dequalificazione del lavoro portò con sé come logica conseguenza l’abbassamento delle paghe, il ricorso sempre più frequente alla mano d’opera femminile e infantile, facilitando i licenziamenti e le assunzioni e aumentando le possibilità dello sfruttamento padronale. Ma soprattutto, tutto questo espose l’operaio a quel fenomeno conosciuto come “alienazione”: l’uomo si estrania da se stesso, non si riconosce più nei prodotti della sua personale attività; il lavoratore, per il continuo ossessivo ripetersi di movimenti al servizio della macchina, perde il senso del suo lavoro e di se stesso, decade da artefice a strumento di produzione, divenendo in pratica un’appendice della macchina stessa.