Dunque, il tempo di lavoro del mondo preindustriale è discontinuo, e tale irregolarità della giornata e della settimana lavorativa si colloca all’interno della irregolarità dell’anno lavorativo, interrotto continuamente da feste, fiere e mercati, come anche da celebrazioni. Con la nuova regolamentazione introdotta dal sistema di fabbrica, invece, i padroni, esigono logicamente che il lavoro sia scandito dal tempo, in quanto a quest’ultimo comincia ad esser dato un valore reale, concreto, misurabile in profitto. Da notare che si cercherà di imporre questa nuova disciplina (l’economia di tempo) anche oltre la fabbrica, coinvolgendo la vita sociale e familiare dei lavoratori ed utilizzando a tale scopo perfino l’istituto scolastico. I nuovi operai resisteranno a lungo a questa nuova concezione del tempo di lavoro, che sconvolge tradizioni, mentalità ed abitudini, ma, dopo aver accettato le categorie mentali fornite dai loro padroni, finiranno per imparare a lottare all’interno di esse, come dimostreranno gli scioperi per la riduzione dell’orario di lavoro e per il pagamento maggiorato degli straordinari.
Nei settori tessili e meccanici la nuova disciplina del tempo venne imposta con maggiore rigore e la lotta sugli orari fu la più violenta. All’inizio della questione, addirittura, alcuni padroni tentarono di espropriare gli operai di qualsiasi cognizione del tempo. Furono utilizzati alcuni stratagemmi meschini per accorciare l’intervallo del pranzo e allungare la giornata lavorativa.
La prima generazione di operai di fabbrica era stata istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione formò le sue commissioni per la riduzione d’orario; la terza generazione scioperò per lo straordinario come tempo maggiorato del 50 per cento. Gli operai avevano accettato le categorie dei loro padroni e avevano imparato a lottare all’interno di esse.