La difficile situazione editoriale italiana

Eugenio Di Rienzo (docente e storico italiano) ha sottolineato dettagliatamente di come l’Ancien régime non termina in Italia prima della metà del XIX secolo per quanto concerne l’editoria, e anche allora non in tutta la penisola.

La causa fondamentale della crisi del mercato editoriale italiano e della sua emarginazione rispetto ad altri Paesi europei risiede innanzitutto nella frammentazione politica che rende impossibile qualunque razionalizzazione unitaria dei sistemi di diffusione libraria. A ciò si aggiunga che, dal Cinquecento in poi, il grosso degli introiti dei librai-stampatori è costituito dalla produzione di testi a carattere religioso e devozionale; produzione che, con la tendenza alla distinzione dei poteri di Chiesa e Stato diffusa un po’ in tutta l’Europa occidentale dagli anni Sessanta del XVIII secolo, vede inesorabilmente crollare il proprio mercato. Così gli editori italiani, proprio nel pieno della stagione dei Lumi, si trovano nella condizione di dover fronteggiare una forte caduta della domanda e sono nello stesso tempo costretti ad aggiornare, seppur con enorme fatica, i propri cataloghi, ormai evidentemente anacronistici. Ciò favorisce da parte loro anche un lungimirante appoggio ad alcune importanti iniziative, che si rivelano fortunate: in primo luogo lo sviluppo della stampa periodica e la rapida diffusione delle novità d’Oltralpe, spesso proposte in traduzione. Trattandosi tuttavia di soluzioni d’emergenza scarsamente sostenute dalla richiesta degli acquirenti (gli illuministi e i borghesi emergenti sono e restano delle élite), l’editoria italiana rimane sostanzialmente esclusa dalla trasformazione proto-industriale che interessa in questi stessi anni l’arte libraria, ad esempio, francese e inglese.

Quali le conseguenze per il letterato professionista?
A tali deficienze d’ordine economico e organizzativo si deve aggiungere una diffusa insensibilità, da parte degli editori italiani, verso la naturale necessità di ricompensare economicamente i propri autori mentre parallelamente ancora manca, da parte di questi ultimi, una politica di difesa della proprietà letteraria e dei diritti economici sulla propria opera. La consuetudine, infatti, è ancora quella per cui chiunque pubblica ciò che vuole, mentre è di là da venire il riconoscimento legislativo del diritto d’autore (una conquista dell’Ottocento inoltrato). In questo quadro appena delineato, che vede l’autore compensato, se non di rado, con una cifra una tantum o con un temporaneo stipendio, deve muovere i primi passi la nuova figura del letterato professionista, che in Italia farà fatica ad affermarsi anche nel secolo successivo, almeno ai massimi livelli. Tuttavia gli esempi dei fratelli Gozzi, di Baretti e, sopra tutti, di Goldoni aprono anche per la cultura letteraria italiani una nuova e fiorente stagione di consapevolezza sul ruolo dello scrittore, dotato di autonomia e d’indipendenza, ma in costante contatto con il pubblico e quindi tanto sottilmente sensibile ai suoi gusti e alle sue richieste quanto in grado di indirizzarne le scelte e le preferenze.

Complementari l’una all’altra, ed emblematiche della problematicità assunta verso fine secolo dalla funzione del letterato, sono le esperienze di Giuseppe Parini e di Vittorio Alfieri. Se lo status sociale di entrambi (ecclesiastico il primo, aristocratico il secondo) sembra contraddire di fatto quell’aspirazione a una cultura – anche sul piano letterario – laica e borghese, le rispettive soluzioni ideologiche e formali costituiscono non solo la conferma delle nuove idealità, ma soprattutto il superamento delle aporie (incertezze) che esse avevano aperto. Così Parini, guardando con simpatia i tentativi riformistici della Milano degli anni Sessanta e Settanta, pur senza condividerne completamente il troppo ottimistico entusiasmo, trasforma il genere classico della satira in uno strumento d’indagine e di giudizio sulla società a lui contemporanea. Egli va costruendo e proponendo una figura sottilmente esemplare di uomo di lettere estraneo e riluttante a ogni connivenza col potere, proiettato alla realizzazione di una virtù che si concretizzi in un disinteressato e fattivo rapporto con la comunità e dignitosamente concentrato sulla propria interiorità, anche a scapito di una vita agiata.
Analogamente, anche se per altra strada, Alfieri rivendica la necessità di assoluta indipendenza dall’intellettuale, da attuarsi anche sul piano economico, e ripropone, con apparente anacronismo, una versione aristocratica dell’uomo di lettere. In realtà è però, paradossalmente, proprio il suo esempio di vita (rifiuto della condizione di nobile feudatario) e ideologico che, dopo la svolta anti-letteraria dell’Illuminismo, fa emergere sulla scena culturale italiana la nuova figura dello scrittore quale artefice, propugnatore e divulgatore del credo libertario e anti-tirannico.

Al di là delle specifiche intenzioni di entrambi, sarà pariniana e alfieriana l’eredità più vivida che il XVIII secolo lascerà nel ricco crogiuolo di sollecitazioni culturali del primo Ottocento.

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