Il John Locke filosofo

Locke nacque a Wrington, presso Bristol, il 29 agosto 1632.

La vivacità delle idee politiche degli illuministi francesi si rivelò anche sul piano della divulgazione del pensiero politico di Locke. Il suo pensiero occupa nel panorama della filosofia inglese della seconda metà del Seicento una posizione di notevole prestigio e di influenza per molti versi paragonabile a quella di cui godette in Francia, nella prima metà del secolo diciassettesimo, il pensiero di Cartesio.
Esponente principe della corrente caratteristica della cultura anglosassone, l’empirismo, Locke concentra la propria riflessione su tre ambiti tematici:
la teoria della conoscenza;
la politica;
la religione;
ambiti che il filosofo affronta con estrema coerenza, quasi in modo sistematico.
Nella sua formazione la scienza seicentesca svolge un ruolo decisivo. Il rapporto con il newtonianesimo, la frequentazione degli ambienti medici e fisici oxoniensi e londinesi orientano significativamente i suoi studi, spingendolo addirittura a rifiutare l’erudizione metafisica della cultura tradizionale per aderire alle prospettive rivoluzionarie delle nuove scienze sperimentali. L’obiettivo del filosofo è quello di tentare di indagare i limiti e le possibilità dell’intelletto umano, in modo da operare una sorta di chiarificazione circa le sue capacità, i suoi poteri reali, i suoi campi di applicazione. Questa esigenza critica costituisce il reale tratto distintivo della filosofia lockeana. Sul piano gnoseologico, il proponimento di Locke è quello di eliminare le pretese indebite della metafisica e determinare concretamente il funzionamento dell’intelligenza umana. Sul piano politico e religioso a ciò corrisponde l’indagine sulle forme e sui principi del governo, sui limiti di azione e di controllo delle istituzioni della società, indagine svolta a partire dal rifiuto di qualsivoglia forma di fanatismo e intolleranza e dalla rivendicazione di una sostanziale separazione tra sfera pubblica e sfera privata, tra stato e chiesa, tra l’ambito dei diritti/doveri civili e quello della fede.

La conoscenza:
Nella prima formulazione dell’empirismo lockeano (rintracciabile entro una serie di scritti preparatori della sua opera poi definitiva – Saggio sull’intelletto umano), affrontando il problema dell’estensione della conoscenza umana, il filosofo inglese afferma che la conoscenza deriva dai sensi e che ciò che risutla al di fuori della nostra esperienza non è conoscibile. Locke si propone di seguire un metodo concreto e analitico, finalizzato a dare una spiegazione dei modi in cui il nostro intelletto acquisisce le nozioni che ha delle cose e a stabilire sia i gradi di certezza della nostra conoscenza sia i fondamenti di quelle credenze o opinioni così varie e diverse che si trovano fra gli esseri umani. Istruiti da questi insegnamenti, gli uomini potranno e sapranno esseri più cauti e attenti circa le cose che superano la loro comprensione, e tenderanno ad accontentarsi di una quieta ignoranza nei confronti di quelle che risulteranno al di là della loro capacità.
Locke prese le distanze sia tanto dal dogmatismo quanto dallo scetticismo, teoria secondo la quale bisogna necessariamente mettere in dubbio tutto e negare ogni credito alla conoscenza. Il filosofo riteneva che l’importante fosse non conoscere ogni cosa, ma solo quanto potesse risultare utile per dirigere razionalmente la vita nel suo aspetto pratico. Ragion per cui, la ricerca lockeana si costituisce come uno studio analitico dei poteri della mente umana.

La classificazione delle idee:
In primo luogo, Locke critica la teoria secondo la quale ci sono nel nostro intelletto principi e idee innati, nozioni primarie e comuni a tutti impresse nella mente dell’uomo, fin dal primo istante della sua esistenza. Secondo il filosofo, la mente umana all’inizio è simile a una tabula rasa: essa è senza idee, senza conoscenza. Quest’ultima non contiene dunque alcun elemento a priori e deriva integralmente i propri contenuti dall’esperienza: non è possibile che ci sia una conoscenza cronologicamente antecedente all’esperienza stessa. Contro i sostenitori dell’innatismo in materia morale e religiosa, Locke afferma che anche quelle credenze che potremmo essere indotti a ritenere naturali o innate ci sono in realtà state insegnate durante la prima educazione, senza che di esse si sia potuto avere alcuna consapevolezza. La convinzione dell’esistenza di idee innate era largamente diffusa nella cultura del tempo, in quanto se ne serviva per fornire certezze alle proprie regole morali e religiose.
In sostanza, la mente non ha nulla da pensare se prima l’esperienza non le ha fornito le idee sulle quali riflettere. L’esperienza è il fondamento di tutte le conoscenze proprie di ogni essere umano. Locke definisce le idee come tutto ciò che è oggetto della nostra intelligenza quando pensiamo.
Il filosofo va ad individuare poi due tipi di esperienza: sensazione e riflessione. La prima è un’esperienza esterna ed è rivolta alle cose esistenti al di fuori di noi, la seconda è invece un’esperienza interna in quanto è rivolta ai fatti psichici presenti dentro di noi:
– gli oggetti esterni, venendo a contatto con i nostri sensi, procurano alla mente determinate idee che essa prima non aveva. Sono queste le idee di sensazione, le quali sono quindi i primi atti del pensiero: fino a che la mente umana non le possiede non è possibile alcuna forma di pensiero (es. le idee di un colore).
– la mente, rivolgendo poi la sua attenzione alle operazioni che essa compie sulle idee di sensazione, ottiene le idee di quelle stesse operazioni. Sono queste le idee di riflessione, per esempio le idee di desiderio, volontà, memoria, decisione, le quali pertanto ci vanno a rivelare i modi di operare del nostro intelletto.
Tutta la conoscenza ha origine e fondamento in queste due fonti.

Sensi e riflessione producono quelle che Locke chiama idee semplici (che corrispondono a singole qualità degli oggetti esterni o a singoli fatti psichici). Alcune di queste provengono da un senso solo (es. i colori dalla vista), altre da più di un senso (es. il movimento o le figure dalla vista e dal tatto), altre ancora dalla sola riflessione (il pensare o il volere ad es.), altre infine dalla combinazione di sensi e riflessione (il piacere o il dolore ad es.).
Il filosofo distingue poi le qualità sensibili in primarie – quelle oggetto di più sensazioni (solidità, estensione, movimento o quiete, numero e figura), che corrispondono a caratteristiche dei corpi inseparabili dai corpi stessi e indipendenti dalla nostra relazione con essi – e secondarie – quelle oggetto di una sola sensazione (odori, suoni, colori, sapori), che sono soggettive, ovvero proprie solo del soggetti sensibile, senza alcun riscontro effettivo nei corpi.
Le qualità primarie sono le cause dirette delle sensazioni; quelle secondarie producono una sensazione solo attraverso le qualità primarie.
Idee semplici: costituiscono per Locke i “materiali della conoscenza”. La mente umana non ha il potere né di inventarle, né di distruggerle una volta acquisite dall’esperienza. Vanno a costituire dunque il limite oltre il quale l’attività della mente non può andare.
Idee complesse: l’intelletto, non essendo del tutto passivo, ha il potere di combinare e di comparare le idee semplici dando vita a un’infinita varietà di idee complesse.
Poiché, tuttavia, le idee complesse sono sempre risolubili nelle idee semplici da cui derivano, l’esperienza rimane l’orizzonte invalicabile entro il quale l’uomo esercita le sue facoltà conoscitive. Tra le molteplici idee complesse proprie della mente umana particolarmente importanti sono le idee complesse di sostanze, le quali sono delle combinazioni di idee semplici che rappresentano cose particolari sussistenti per se stesse (un uomo, una pecora, una sedia). Secondo il pensiero di Locke, tali idee originano dalla consuetudine che la mente ha di considerare un certo numero di idee semplici costantemente insieme e dalla conseguente convinzione che queste appartengano a una cosa sola.
Tuttavia, per Locke, l’idea a cui diamo il nome generale di sostanza è <>; noi contrassegniamo con un certo nome unitario (per esempio una roccia) un insieme di qualità sensibili (colore, grandezza etc.), ma in realtà della sostanza “una roccia” noi abbiamo conoscenza esclusivamente attraverso le idee semplici delle qualità che vi corrispondono, al di là delle quali non c’è nulla di conoscibile. Essendo la sostanza un qualcosa di oscuro, di inconoscibile, a essa corrisponde un’idea complessa altrettanto oscura. Al contrario, le idee semplici risultano sempre “chiare e distinte”.
Il limite della conoscenza umana viene così fissato con chiarezza: noi non abbiamo alcuna conoscenza della essenza delle cose, perché siamo privi di facoltà atte a raggiungerla. Rifiutata la possibilità stessa di un’indagine di stampo ontologico, l’intelletto umano non può andare oltre l’ambito dei fenomeni. Di qui nasce la critica di Locke alla metafisica, la quale ha preteso di indicare nella sostanza l’essenza della realtà, la ragion d’essere più profonda e vera sottostante alle qualità sensibili, quando al contrario essa non è null’altro che un’idea complessa risultato della combinazione di idee semplici.

Analisi del linguaggio:
Allo studio del linguaggio, dell’origine dei nomi e del loro rapporto con le cose e le idee, è dedicato il terzo libro del Saggio.
Per Locke, le parole sono segni delle idee, di cui gli uomini si servono per fissare, ricordare e comunicare i loro pensieri. Essendo ogni idea il segno di una cosa, le parole sono segni dei segni delle cose. Il linguaggio, dunque, non esprime alcuna essenza della realtà: è semplicemente il segno convenzionale delle idee. Esso dunque non svela verità di tipo metafisico, è piuttosto il mero strumento attraverso il quale gli uomini indicano le proprie idee e, indirettamente, contrassegnano le cose. Locke, contrario al realismo, ritiene che l’imposizione di un nome a un’idea non sia determinata da alcun legame oggettivo, ma dipenda dalla libera attribuzione dell’uomo e dalle necessità della comunicazione intersoggettiva, anche se poi l’abitudine tende a stabilizzare il rapporto tra parole e cose, facendolo apparire così naturale. Gli stessi termini generali del linguaggio sono solamente nomi che noi usiamo per classificare le cose in generi e specie, ottenuti attraverso un processo di astrazione operato dalla nostra mente, la quale, a partire da idee particolari, unifica certe qualità più generali e comuni, formando determinate idee astratte. Tuttavia, in quanto ogni cosa che esiste è sempre particolare, tali idee astratte si trovano solo nella nostra mente e, in quanto nomi generali, si traducono unicamente in determinati segni linguistici.
In sostanza, il linguaggio nasce per la comunicazione ed è costituito da parole che sono segni convenzionali delle idee. I nomi non si riferiscono alla realtà, bensì alle idee esistenti nel nostro intelletto, e dunque il linguaggio serve a porre ordine nel pensare. Attraverso il procedimento dell’astrazione, noi cogliamo gli elementi comuni di idee semplici mettendo da parte quelli particolari e andiamo così a formulare i termini generali che non esprimono l’essenza reale delle cose, che non può essere conosciuta, ma esclusivamente l’essenza nominale.

Le forme della conoscenza:
Locke definisce la conoscenza come <>. Per percezione, il filosofo inglese intende la prima e più importante facoltà della mente che si esercita sulle idee. Essa è un momento della riflessione, che unifica la molteplicità delle sensazioni.
L’intelletto conosce in tre modi:
– attraverso l’intuizione, che è una conoscenza chiara e certa, non bisognosa di alcuna prova. Essa percepisce la concordanza o la discordanza di due idee in modo immediato, senza bisogno dell’intervento di alcuna altra idea.
– attraverso la dimostrazione, ossia una conoscenza che opera per prove, in modo mediato, per via di una serie di passaggi in cui la mente, tramite il ragionamento, collega due idee per mezzo di una terza.
– attraverso i sensi, i quali, pur non raggiungendo la certezza propria delle due forme di conoscenza precedenti, consentono di percepire l’esistenza degli enti concreti al di fuori di noi.
Dunque, secondo una gradazione decrescente, intuizione, dimostrazione e sensazione conducono a una conoscenza certa ed evidente. L’evidenza risulta massima nell’intuizione, in quanto conoscenza immediata, minore nella dimostrazione, in quanto conoscenza mediata; infine, nel caso dei sensi, essa è di grado inferiore come detto, ma comunque sufficiente per porre la nostra conoscenza delle cose al di là di ogni ragionevole dubbio.

Dell’esistenza dell’io si ha conoscenza intuitiva: niente, infatti, può essere per noi più evidente e certo del fatto che noi esistiamo.
L’esistenza di Dio ha invece bisogno di essere provata: di essa, cioè, si ha conoscenza per dimostrazione. Prova lockeana dell’esistenza di Dio: se qualcosa esiste (e qualcosa certamente esiste, in quanto la mia esistenza è stata mostrata intuitivamente) e se il nulla non può che generare il nulla, allora ciò che esiste deve avere avuto una causa, e questa un’altra causa e via discorrendo. Ma, essendo impossibile risalire all’infinito, si deve ammettere che esiste un essere eterno, infinitamente potente e intelligente, che ha generato ogni cosa.
Infine, mediante la sensazione, noi siamo garantiti circa l’esistenza delle cose fuori di noi. Siamo indotti ad ammettere che le nostre sensazioni siano causate da corpi esistenti fuori di noi.
La conoscenza si fonda dunque sui caratteri dell’evidenza e della certezza, mentre l’opinione si basa sulla sola probabilità. La nostra conoscenza non può mai andare al di là dell’esperienza, che va quindi a costituire il limite inesorabile al nostro sapere. L’uomo, nel momento in cui formula opinioni, deve accontentarsi di una conoscenza alquanto approssimativa e probabile, garantita, sia pure in modo parziale e provvisorio, dall’accordo della nostra esperienza con l’esperienza altrui. L’esistenza umana va a strutturarsi attorno ai più incerti e opachi risultati del nostro intelletto, ed è dunque assurda la pretesa di chi vuole essere sempre guidato da certezze, quando invece la maggior parte delle nostre conoscenze ha solo il valore di una presunzione di verità.

La ragione, dunque, altro non è che l’unione di knowledge e di opinion, e si pone come il vero e ottimistico fondamento della vita umana, entro i limiti dettati dall’esperienza. Anche la fede religiosa non deve sottrarsi all’indagine razionale: Locke combatte con fermezza il fideismo fanatico, secondo cui l’assenso che la fede concede alla rivelazione divina non abbisogna di alcuna comprensione razionale.

Precedente L'Encyclopédie Successivo Il liberalismo politico di Locke