Il liberalismo politico di Locke

« Lo stato mi sembra la società degli uomini costituita soltanto per conservare e accrescere i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo e la sua immunità dal dolore, e il possesso delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili ecc….>> (Frase presa integralmente dall’opera di Locke “Lettera sulla tolleranza”).

Dopo aver analizzato il pensiero filosofico dello studioso inglese, bisogna andare a compiere il medesimo percorso, in maniera forse ancor più puntuale e specifica, rispetto ai concetti espressi in merito alla questione politica. Grazie a quanto da lui esposto in tale ambito, da molti viene ancora oggi considerato il padre del liberalismo classico. Non vi è forse alcuna opera al mondo che ha influenzato così profondamente il pensiero politico come ha fatto l’Essay of Civil Government. L’opera di Locke sferra all’assolutismo i primi colpi seri, se non i più furiosi. Come Hobbes, il filosofo inglese parte dallo stato di natura e dal contratto originario; ma ne darà una nuova versione, che gli permetterà di erigere a regola la distinzione tra potere legislativo e potere esecutivo, per arrivare ad una limitazione tutta umana del potere, sanzionata, in ultima istanza, dal diritto insurrezionale proprio dei sudditi.

Seguendo la moda intellettuale del tempo, Locke parte dunque dallo stato di natura e dal contratto originario che ha segnato la nascita della società politica, del governo civile. Il reale problema per lui consiste nell’andare a fondare la libertà politica su quelle stesse nozioni da cui Hobbes traeva una giustificazione per l’assolutismo.
Secondo la concezione lockeana, è proprio l’esistenza dei diritti naturali nello stato di natura che proteggerà l’individuo dagli abusi del potere nello stato di società, in quanto lo stato di natura di Locke è regolato, al contrario di quello di Hobbes, dalla ragione. E ancora, i diritti di natura, contrariamente a Hobbes, lungi dal costituire l’oggetto di una rinuncia totale al momento del contratto originario, lungi dallo scomparire, spazzati via dalla sovranità, nello stato di società, vi sussistono per andare a costituire le basi della libertà. Lo stato di natura di Locke non è in alcun modo pura metafora: ha avuto effettiva storicità e sussiste ancora nelle comunità primitive. In tale condizione (entro la quale vigono libertà e uguaglianza) nessuno ha più potere o autorità di altri, nessuno è politicamente inferiore o sottoposto a volontà altrui. Nei limiti della legge naturale, ognuno è libero di regolare le proprie azioni e di disporre di sé e dei propri beni come meglio crede. Tuttavia, l’uguaglianza naturale non implica una completa parità di status: età, virtù, capacità, educazione, merito differenziano gli uomini, pur non generando disuguaglianza politica.
E, perché nessuno tenti di ledere i diritti altrui, la natura ha autorizzato ognuno a proteggere e preservare l’innocente ed a combattere chi gli fa torto: è il diritto naturale di punire. Tale diritto non è in alcun modo assoluto e arbitrario, e va ad escludere dal suo esercizio tutti i furori di un cuore irritato e vendicativo, autorizzando esclusivamente quelle pene che dettano ed ordinano una mente serena ed una coscienza pura; pene proporzionate all’errore, che non tendono che a riparare il danno causato, e a impedire che se ne verifichino altri in avvenire.

La legge naturale prescrive il rispetto dei diritti più che dei doveri, ed in questo modo Locke sposta l’accento dal sovrano al cittadino, dal principio d’autorità al principio di libertà. Vita, sicurezza, libertà e proprietà sono i quattro grandi diritti naturali, i quali si fondano sull’inclinazione umana all’autoconservazione e alla felicità. Per Locke libertà e felicità sono inscindibili. La politica deve garantire le tre premesse della felicità: pace, armonia, sicurezza. Nello stato di natura, tuttavia, mancando un potere politico in grado di rendere attuabile effettivamente la felicità, la legge naturale si limita a prescrivere un divieto di ordine generale: essendo gli uomini tutti uguali, nessuno può ledere la vita, la libertà, i beni degli altri. Sono ammesse solamente due eccezioni: la legittima difesa e la punizione del trasgressore. Chi viola la legge naturale lede i diritti altrui, colpisce la pace e la sicurezza dell’intera specie, minaccia l’intera società.
La legge naturale sarebbe inefficace se nessuno disponesse del potere di renderla esecutiva, difendendo gli incolpevoli e reprimendo dunque i trasgressori. Insomma, nello stato di natura la responsabilità di rispettare la legge cade per intero sul singolo, mancando sia una legge positiva stabile (espressa da poteri politici legittimi) sia giudici imparziali.
E, tra i diritti fondamentali di questo stato di natura, compare come detto la proprietà privata. Senza dubbio Dio ha dato agli uomini la terra in comune, ma la ragione, che egli ha egualmente dato loro, vuole che essi facciano della terra l’uso più vantaggioso e più comodo. Ciò esige una certa appropriazione individuale, dapprima dei frutti della terra, poi della terra stessa. Tale appropriazione è basata sul lavoro dell’uomo e limitata dalla sua capacità di consumo. Si dà dunque una giustificazione naturale della proprietà, anteriore ad ogni convenzione sociale. Ma se lo stato di natura offre tutti questi vantaggi, risulta complicato capire perché gli uomini se ne siano volontariamente spogliati. Locke ci dice che sì, gli uomini stavano bene nello stato di natura, ma si trovavano comunque esposti a certi inconvenienti che, soprattutto, rischiavano di aggravarsi; e, se hanno preferito lo stato di società, è per star meglio.

Ognuno, nello stato di natura, è giudice della propria causa. In questa condizione, in fin dei conti, mancano diversi elementi funzionali al quieto vivere: leggi stabilite, conosciute, accolte ed approvate di comune accordo; giudici riconosciuti, imparziali, istituiti per porre fine ad ogni controversia conformemente a tali leggi stabilite; infine, un potere di costrizione capace di assicurare l’esecuzione delle sentenze emesse. Ora, tutto questo caratterizza logicamente lo stato di società. Ed è per usufruire di tali miglioramenti che gli uomini hanno deciso di optare per un cambiamento. (scrive Hazard: <>).
Questo cambiamento di stato non ha potuto operarsi – eccoci al cuore della teoria di Locke – che per CONSENSO. Soltanto questo ha potuto fondare il corpo politico: essendo gli uomini tutti naturalmente liberi, uguali e indipendenti, nessuno può essere rimosso da tale stato, ed essere sottomesso al potere politico altrui, senza il suo consenso. Consenso che gli permetterà di accordarsi con gli altri uomini onde unirsi e mettersi in società, per la loro conservazione, per la sicurezza reciproca, la tranquillità di vita, per il pacifico godimento della loro proprietà privata e per essere maggiormente al riparo dagli insulti di chi volesse nuocere e far loro del male.
Dunque, il consenso di un certo numero di uomini liberi in grado di essere rappresentati dal maggior numero di essi è la base del tutto, è ciò che fondamentalmente ha dato vita ad una società politica e l’ha progressivamente resa stabile; ed è questo, e solo questo, che può aver dato inizio, nel mondo, ad un governo effettivamente legittimo.

Ne consegue logicamente che il governo assoluto non potrebbe mai essere legittimo, e neanche considerabile come un governo reale, in quanto il consenso degli uomini al governo assoluto è inconcepibile. Come immaginare che si voglia creare una situazione peggiore dello stato di natura, e che si possa ammettere che tutti, ad eccezione di un singolo, si sottomettano esattamente e rigorosamente alle leggi, e che quel solo privilegiato mantenga la libertà dello stato di natura, addirittura aumentata ed accresciuta dal potere, e divenuta licenziosa per l’impunità. Sarebbe impensabile.

Il passaggio dallo stato di natura a quello civile non è immediato né automatico. L’uomo, per Locke, non è predisposto né a una vita sociale del tutto armoniosa, né a una vita solitaria e asociale. Non vi è né una condizione in cui gli uomini cooperano in pace e fratellanza, né una in cui essi si scontrarono perennemente per sopravvivere. L’individuo concreto è sempre la risultante dell’azione reciproca di spinte individualizzanti e spinte socializzanti ed è motivato alla vita associata da forti impulsi di necessità e vantaggio. Entro la società politica gli uomini si ritrovano inseriti in molteplici associazioni, tutte istituite in forza di un libero contratto e tutte conformi a leggi e norme: la famiglia, le comunità territoriali, dal villaggio allo stato, le associazioni economiche, religiose, culturali. Va sottolineato come, per Locke, la famiglia, l’attività economica, le opinioni culturali e religiose esulano dalle competenze dello stato e non ne tollerano l’invadenza; l’educazione compete alla famiglia, la salvezza alle chiese, l’entità del reddito all’iniziativa individuale.

LO STATO LIBERALE
L’uomo nello stato di natura detiene due tipi di potere, di cui, entrando nello stato civile, si spoglia a beneficio della società, che ne diviene l’erede. L’uomo ha il potere di fare tutto ciò che ritiene essenziale e giusto per la sua propria conservazione e per quella del resto degli uomini; se ne spoglia affinché esso sia regolato e amministrato dalle leggi della società. In secondo luogo, l’uomo ha il potere di punire i crimini commessi contro le leggi naturali, ovvero il potere di impiegare la sua forza naturale per far eseguire queste leggi in modo opportuno; se ne spoglia per dare maggiore forza al potere esecutivo di una società politica.
La società, erede degli uomini liberi dello stato di natura, possiede, a sua volta, due poteri essenziali. L’uno è il LEGISLATIVO, che regola la maniera in cui debbono essere usate le forze di uno Stato per la conservazione della società e dei suoi membri. L’altro è l’ESECUTIVO, che assicura l’esecuzione delle leggi positive all’interno. Per l’esterno, per i trattati, la pace e la guerra, agisce un terzo potere, d’altronde normalmente legato all’esecutivo, che Locke chiama CONFEDERATIVO. A garanzia e a tutela dei cittadini, il potere legislativo ed il potere esecutivo, in tutte le monarchie moderate ed in tutti i governi ben costituiti, devono necessariamente trovarsi in mani diverse. Questo si rivela fondamentale in relazione ad una prima ragione assolutamente pratica, cioè al fatto che il potere esecutivo deve essere sempre in funzione onde far eseguire le leggi senza la minima interruzione, mentre il potere legislativo non necessita di trovarsi in costante funzione, in quanto non esiste ragione di legiferare continuamente (non è sempre necessario fare leggi, ma lo è sempre far eseguire quelle che siano state fatte). Vi si aggiunge una seconda ragione, prettamente psicologica: la tentazione di abusare del potere si impadronirebbe di coloro nelle cui mani i due poteri fossero riuniti. Questi due poteri distinti non sono eguali tra loro, in quanto il legislativo è il supremo potere, è sacro, non può essere sottratto a quelli cui è stato una volta rimesso; la prima e fondamentale legge positiva di ogni Stato è quella che fonda il potere legislativo, che, come le leggi fondamentali della natura, deve tendere a conservare la società. Esso costituisce dunque l’anima del corpo politico, da cui tutti i membri dello Stato traggono quanto è loro necessario per la propria conservazione, unione e felicità. Logicamente, visto quanto premesso, il potere esecutivo è in posizione subordinata; ma guardiamoci bene dal vedervi un semplice commesso agli ordini del legislativo, che lo confinerebbe ad un ruolo subalterno, di pura e semplice esecuzione. Il bene della società esige che si lascino molte cose alla discrezione di chi detiene il potere esecutivo, in quanto il legislatore non pùo prevedere tutto né provvedere a tutto, e vi sono anche casi in cui l’osservanza stretta e rigida delle leggi può non apportare alcun beneficio, ma addirittura un gran danno.

In sostanza, secondo Locke, i diritti naturali degli uomini non vengono perduti in seguito al consenso ad entrare in società, ma, al contrario, continuano e sussistono, e addirittura trovano effettiva tutela e protezione. E sussistono per limitare il potere sociale e fondare la libertà. Insomma, se gli uomini hanno scientemente deciso di uscire dallo stato di natura, che era ben lungi dall’essere un inferno ma che presentava diversi inconvenienti prima citati, è stato per star meglio; è stato per essere più sicuri di conservar meglio la loro integrità personale, la loro libertà, la loro proprietà mal garantite nello stato di natura. Dunque non è concepibile che il potere della società, incarnato in primo luogo dal legislativo, debba avere una estensione maggiore di quanto non lo richieda il bene pubblico. Non avendo altro fine che la conservazione, il legislativo non potrebbe mai aver diritto di distruggere, rendere schiavo, o impoverire intenzionalmente alcun suddito; gli obblighi delle leggi di natura non cessano affatto nella società, anzi, in molti casi, vi divengono addirittura più forti. Il medesimo ragionamento viene fatto e vale anche per l’esecutivo, in relazione a quel margine di potere discrezionale che deve essergli riservato. Benché il legislativo sia proclamato supremo e sacro, non c’è, sotto questo punto di vista, alcuna differenza fondamentale tra esso e l’esecutivo. Il popolo (ovvero quell’insieme di individui che hanno consentito ad unirsi in società) accorda la sua fiducia al legislativo come all’esecutivo, per la realizzazione del bene pubblico, niente di più, niente di meno. Il potere è un deposito affidato ai governanti, a vantaggio del popolo. Se i governanti, chiunque essi siano – parlamento o re -, agisce in modo contrario al fine per cui avevano ricevuto l’autorità, cioè al bene pubblico, il popolo ritira la sua fiducia, ritira il deposito; riprende così la sua sovranità iniziale, per affidarla a chi giudicherà opportuno. Il popolo si erge così a giudice. In fondo, il popolo conserva sempre, in riserva, una sovranità potenziale; è lui, e non il legislativo, che detiene il vero potere sovrano. Da parte sua, come detto, c’è deposito, non contratto di sottomissione.
Così si giustifica che, contro la forza del legislativo come dell’esecutivo divenuta priva di autorità, il popolo possa impiegare la forza. Arriviamo così al coronamento dell’edificio dialettico costruito così abilmente da Locke: la giustificazione del diritto di insurrezione, che l’autore qualifica come diritto di appellarsi al Cielo: <>. E, qualora si obiettasse che il riconoscimento di un diritto del genere comporti l’incoraggiamento di perpetui disordini ed il rischio dell’anarchia, ecco la risposta: in primo luogo, l’inerzia naturale del popolo non lo porta ad insorgere che nei casi estremi. In secondo luogo, allorché il peso dell’assolutismo divenga insopportabile, non ci sarebbe più teoria dell’obbedienza che tenga. Infine, e soprattutto, l’ordine esteriore non è tutto: nessuno sarebbe disposto a pagarlo a qualsiasi prezzo, né, sotto il pretesto della pace, a rassegnarsi alla pace dei cimiteri.

Precedente Il John Locke filosofo Successivo Voltaire e l'assolutismo illuminato