Il dibattito sulla giustizia

Fu questo un dibattito che attraversò tutto il Settecento italiano, raggiungendo il momento più alto nell’opera di Beccaria e nella sua ricezione. Erano in gioco valori e principi basilari della cultura illuministica: la tolleranza, l’uguaglianza di fronte alla legge, la dignità dell’uomo, la difesa dei diritti fondamentali (alla vita, alla felicità, alla libertà di opinione). La capacità di fondere tra loro, in modo originale e in uno stile letterariamente felice, la passione egualitaria di Rousseau, il contrattualismo di Locke, l’utilitarismo di Helvétius, il sensismo di Condillac, la riflessione di Montesquieu sullo spirito delle leggi e sull’equilibrio tra i poteri consentì al piccolo libro Dei delitti e delle pene di avere una risonanza eccezionale e duratura sugli intellettuali, sugli uomini politici e sui sovrani di molti Paesi.

Esso venne accolto con enorme interesse dalla platea europea, tanto che Voltaire gli dedicò un saggio. Diverse pagine furono studiate e trascritte dal padre della rivoluzione americana, Thomas Jefferson, ma anche da Caterina II di Russia durante la preparazione dei nuovi codici ispirati alla filosofia dei lumi. In Italia, alcune istanze del saggio di Beccaria trovarono una risposta legislativa con la riforma del codice penale in Toscana e in Lombardia. Come negli altri ambiti in cui si svilupparono le iniziative riformatrici, anche in quello della giustizia emerse un’esigenza generale di razionalizzazione che era una delle componenti principali del passaggio dall’ancien régime al moderno Stato di diritto. Intellettuali e sovrani concordavano sulla necessità di semplificare la legislazione e di riunificare la funzione giudiziaria eliminando i tribunali ecclesiastici e restituendo allo Stato la giustizia di prima istanza, tradizionale prerogativa della nobiltà. Filangieri, tra gli altri, denunciò gli abusi dei magistrati scelti dai baroni a livello locale: “Senza onore, senza ricchezza, senza lumi, privi della confidenza del popolo ed incapaci di procurarsela, essi non hanno altro talento se non quello che si richiede per vessare, opprimere, rubare e saper favorire chiunque è potente e calpestare chiunque è debole”.

La revoca delle prerogative ecclesiastiche e nobiliari nell’amministrazione della giustizia venne richiesta sia per consolidare il potere centrale dello Stato, sia per abolire le molteplici discriminazioni giuridiche tra i ceti, in nome del principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Così Longano, in una prospettiva giusnaturalistica e rousseauiana, afferma che tutti gli uomini sono uguali e hanno per natura gli stessi diritti; Beccaria sostiene che le pene debbano esser le medesime per il primo e per l’ultimo cittadino. Lo stesso Giuseppe II, che impronta all’uguaglianza giuridica il codice penale del 1787, aveva scritto nel 1765 che i nostri genitori non ci possono trasmettere se non la vita fisica, perciò non vi è nessuna differenza tra un re, un conte, un borghese e un contadino.

Contro gli abusi derivanti dalla discrezionalità del giudice nell’interpretare le leggi, ci si appellò alla certezza del diritto e alla chiara distinzione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria. Al medesimo fine di garantire i diritti dell’individuo mirava la semplificazione dei codici (per esempio quello toscano del 1786): una legge trasparente e comprensibile a tutti, secondo Beccaria, è un deterrente contro i delitti e può svolgere una funzione educativa. Tutti questi temi sono presenti anche nelle celebri pagine che Dei delitti e delle pene dedica alla tortura e alla pena di morte, all’interno di una riflessione critica sulla natura e sul fine della pena, sui fondamenti e sui limiti dell’autorità sovrana e dello stesso diritto di punire.
Proprio quest’ultimo sarà il tema che tratterò con maggiore attenzione e con profondo spirito riflessivo all’interno del mio prossimo articolo.

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