Idee e riforme: l’Italia di fine ‘700

Cosa successe nel nostro paese sotto il punto di vista dello sviluppo intellettuale durante questa fase di enorme fioritura culturale vissuta dal più ampio contesto europeo? Dedichiamo alla risoluzione di questo quesito una serie di articoli, che tenteranno di mettere in luce le situazioni contestualmente funzionali ad una risposta tanto esauriente quanto soddisfacente.

Il Settecento fu indubbiamente un secolo di enorme importanza per la vita della nostra penisola, in quanto gran parte del territorio uscì da un lungo periodo di relativo isolamento culturale, politico ed economico. Un numero crescente di intellettuali denunciò la generale arretratezza del Paese e riaprì contemporaneamente la comunicazione con la cultura europea più avanzata. Questo fenomeno ebbe inizio con alcune voci piuttosto isolate (come quelle di Ludovico Antonio Muratori e di Pietro Giannone, ad esempio), per poi culminare nei gruppi illuministici che, nella seconda metà del secolo, furono protagonisti dell’esperienza dell’assolutismo illuminato nei Regni di Napoli e Sicilia, ma soprattutto nella Lombardia asburgica e nella Toscana di Pietro Leopoldo.

Il rinnovamento fu senz’altro favorito dai mutamenti dinastici seguiti alle guerre europee del primo Settecento, che posero fine alla soffocante egemonia spagnola, e dal lungo periodo di pace che, dopo la conclusione della guerra di successione austriaca (1748), consentì agli Stati italiani di concentrarsi sulle questioni interne. Si aprirono prospettive di riforma che incoraggiarono l’impegno politico e civile di diversi intellettuali, sino alla collaborazione con i sovrani e all’assunzione di responsabilità dirette di governo. Molti di questi uomini di cultura italiani alimentarono con forza il mito del principe filosofo, intento a promuovere la “pubblica felicità”, che consisteva logicamente nel ritrovato benessere materiale e morale dei sudditi, invece che una semplice politica di potenza.

Nella Milano asburgica, Pietro Verri (filosofo, economista, storico e scrittore italiano considerato tra i massimi esponenti dell’Illuminismo italiano, è considerato il fondatore della scuola illuministica milanese) parlava di sovrani occupati a sciogliere la schiavitù del popolo, accessibili, umani, cittadini; il matematico lombardo Paolo Frisi, nell’elogio funebre dell’imperatrice Maria Teresa (1780), affermava che oramai lo spirito della filosofia era arrivato al trono, funzionale a dirigere la suprema facoltà di giudicare e di moderare le leggi umane, e di correggere tanti abusi generalmente radicati coll’ignoranza dei secoli più oscuri. Nella Napoli borbonica, Gaetano Filangieri ribadiva la necessità di un’alleanza riformatrice tra filosofi e monarchi, sostenendo che la gloria dell’uomo che scrive è di preparare i materiali utili a coloro che governano.

Molti sovrani, a ben guardare, erano aperti alle nuove idee e alle prospettive riformatrici. Questo vale in primo luogo per l’assolutismo illuminato della casa asburgica – Maria Teresa (1745-80), il figlio e successore Giuseppe II (1780-90), l’altro figlio Pietro Leopoldo prima in Toscana e poi nell’impero – ma anche per Carlo di Borbone nel più arretrato contesto sociale del Regno di Napoli. Maria Carolina, moglie austriaca di Ferdinando IV, che successe al padre Carlo quando questi salì al trono di Spagna nel 1759, appoggiò le riforme e frequentò la massoneria napoletana, veicolo importante di diffusione delle idee illuministiche più radicali.

La collaborazione tra intellettuali e sovrani non era tuttavia esente da ambiguità e contraddizioni. Le decisioni dei sovrani erano spesso dettate non tanto da scelte ideologiche generali, quanto da concrete esigenze di accentramento politico e amministrativo, di modernizzazione dello Stato e di risanamento finanziario. Potremmo quasi dire che agli intellettuali venne spesso riservata la funzione di promuovere il consenso, e non un effettivo ruolo decisionale. Le figure di Giuseppe II e di Pietro Leopoldo esprimono le due polarità di questa contraddizione. I modi autoritari con cui il primo continuò e accelerò l’opera riformatrice di Maria Teresa, senza preoccuparsi eccessivamente del consenso, provocarono il disimpegno degli illuministi lombardi che si trovarono scavalcati da funzionari più docili e fedeli a Vienna. Dal canto suo, Pietro Leopoldo si allontanò invece gradualmente dall’assolutismo nella direzione di un decentramento amministrativo e del riconoscimento di alcune libertà politiche, giungendo a elaborare un progetto di Costituzione più avanzato della stessa prospettiva riformistica dei suoi principali collaboratori.

A Napoli, la monarchia e gli apparati di governo si dimostrarono meno determinati ed efficienti nel rispondere alle sollecitazioni dei riformatori, alcuni dei quali passarono dalla prospettiva dell’assolutismo illuminato e quella costituzionale e repubblicana, rafforzata infine dagli echi della Rivoluzione francese.

Precedente Dal mezzadro al proletario Successivo Il rinnovamento culturale italiano