I Fasci Italiani di Combattimento

Per Fasci Italiani di Combattimento intendiamo quel movimento politico fondato a Milano da Benito Mussolini il 23 marzo 1919, erede diretto del Fascio d’Azione Rivoluzionaria del 1914. Il 10 novembre 1921 si trasformò in Partito Nazionale Fascista.

Nel tentativo di elaborare una descrizione dello sviluppo del Fascismo in un contesto tanto delicato quale era quello delineatosi nel Dopoguerra Italiano, potremmo affermare che immediatamente si delineò come un movimento nazionalista di massa innovativo, sorto in una democrazia parlamentare con il dichiarato proposito di distruggerla per sostituire ad essa uno <> autoritario, gerarchico, militarizzato. Per un ventennio l’Italia fu trasformata dal PNF in un immenso laboratorio dove milioni di persone vennero coinvolte, volenti o nolenti, nel tentativo di realizzare il mito di uno Stato totalitario volto a formare una nuova razza di italiani allevati nell’integralismo proposto dall’ideologia fascista.

Certamente enorme fu l’abilità di Mussolini nel comprendere il momento e nel capire da che parte conveniva volgersi in un contesto tanto complicato quale era quello italiano dell’epoca. Il ruolo dell’esercito (garante ultimo della legalità dello Stato) rispetto alla salita al potere di Mussolini fu, come vedremo, tanto fondamentale quanto necessario. Mussolini non aveva comunque in mente di dar vita ad un partito politico quando, nei primi giorni di marzo del 1919, annunciò la fondazione dei Fasci di combattimento.

Il conflitto latente fra Mussolini e il Partito socialista, dal quale venne espulso nel momento in cui si schierò a favore dell’intervento dell’Italia nella guerra europea, si concluse con la fondazione del quotidiano Il Popolo d’Italia da parte dello stesso, divenendo così il traditore per eccellenza per le masse socialiste. Nel gennaio del 1915 venne annunciata la nascita dei Fasci di azione rivoluzionaria: lo statuto dichiarava che questi non erano un partito, ma liberi aggruppamenti di quei sovversivi di tutte le scuole e dottrine politiche che ritengono di trovare nell’attuale momento e in quello che immediatamente a questo succederà, un campo propizio alla fecondazione delle idealità rivoluzionarie che non intendono però lasciare sfuggire l’occasione di un movimento in comune.

Dunque, almeno inizialmente, Mussolini sembrava non desiderare la rigidità e le regole tipiche di un partito tradizionale, ma definì “movimento fascista” questi nuclei di forti e volitivi che auspicavano di prender parte a questa associazione di volontari, a questo anti-partito, frutto dell’insofferenza per il pensiero politico formale, per l’ortodossia ideologica, per i vincoli disciplinari. Durante la guerra Mussolini abbandonò gli ultimi legami
ideologici con il socialismo e si convertì interamente ai miti del radicalismo nazionale.

Finito il conflitto cercò subito di porsi all’avanguardia della mobilitazione politica dei reduci: gli interventisti e i combattenti erano il pubblico ideale per la promozione delle sue idee, e sperava con loro di porsi alla testa della rivoluzione italiana. Più in particolare, almeno nei primi mesi dopo la guerra, Mussolini dedicò soprattutto le sue cure alla difesa dei diritti dei combattenti: da un lato egli si assunse premurosa tutela delle loro rivendicazioni economiche, dei loro bisogni pratici al momento di rientrare nella vita civile; dall’altro cercò di guadagnarne la rappresentanza politica insistendo specialmente sui compiti nuovi di rinnovamento della nostra vita pubblica con la sostituzione della vecchia e ormai decaduta classe politica, ai quali la guerra ha chiamato quella particolare categoria sociale che, con un pittoresco neologismo, Mussolini definì “trincerocrazia” (la trincerocrazia è l’aristocrazia della trincea, l’aristocrazia di domani, l’aristocrazia in funzione).

Qui però il suo discorso si fece più preciso e, operando una distinzione all’interno delle forze combattentistiche, la sua parola si rivolse a questo proposito soprattutto agli ufficiali, veri artefici della vittoria, élite della aristocrazia nuova, rivelando già il desiderio di avvicinarsi a quelle forze specificatamente rappresentative della piccola borghesia. Attraverso di esse, sfruttando sapientemente quel fondo retorico della loro mentalità che Luigi Salvatorelli descrisse tanto acutamente in pagine ormai famose, Mussolini riuscì ad apparire ancora come un autentico interprete delle speranze della guerra, cioè ad utilizzare per i propri fini quella carica emotiva la cui incalcolabile energia potenziale perdurava tanto più inalterata, indipendentemente dai requisiti politici necessari a tradurla rettamente in pratica, quanto meno essa si accompagnava a una vigile coscienza critica.

Ma, almeno inizialmente, la grande massa dei reduci preferì dar vita ad un proprio anti-partito, costituendo l’Associazione Nazionale Combattenti. Gli unici reduci che risposero con entusiasmo all’appello di Mussolini furono i futuristi (il movimento futurista si faceva espressione di una deformata psicologia di guerra, amante della violenza, negatrice delle ragioni altrui e quindi già tendenzialmente totalitaria, il cui frutto più caratteristico era l’arditismo) e gli arditi: fortemente interessati (specialmente questi ultimi) ad esercitare un ruolo attivo nella politica italiana del dopoguerra, si vollero mostrare attraverso l’immagine dell’italiano nuovo forgiato dalla guerra, in grado di utilizzare la propria specializzazione militare nella lotta politica. Indubbiamente, la loro adesione al movimento di Mussolini aggiunse alla formula dell’anti-partito l’aspetto dell’attivismo militare, lo stile di combattimento, che presto divenne una delle caratteristiche fondanti del nuovo movimento fascista.

I fascisti cooptarono via via arditi e combattenti nelle loro fila, e fecero in modo che il ruolo di segretari politici fosse assunto da ex ufficiali in grado di formare, allenare e guidare le squadre di combattimento. Sorti nella primavera del 1917 come speciali reparti d’assalto, gli arditi furono sin dalla loro origine caratterizzati dal gusto per il rischio, dal culto del gesto eroico fine a sé stesso, da una prepotente indisciplina: tutto sommato, venivano considerati degli irregolari. Di fatto, il loro incontro con il futurismo fu conseguenza logica. Ma neppure potrebbe dirsi casuale il rapporto che si stabilì tra gli arditi e Mussolini subito dopo la fine della guerra. Fu la prima volta nella storia dell’Italia unita che intorno a un giornale, a un privato cittadino, si venne raccogliendo una forza armata, una personale guardia del corpo, che già ripete sia pure in forma embrionale la struttura di una organizzazione militare. L’anti-partito sarebbe stato lo scheletro, l’armatura attorno a cui raccogliere i ritornanti e le loro energie potentemente rinnovatrici.

Dunque, consolidata la sua posizione rispetto alla situazione politica milanese per avere almeno in parte superato l’isolamento che lo minacciava alla fine della guerra, nel marzo del 1919 Mussolini decise di rilanciare il progetto di quella adunata delle forze interventiste. Pubblicò quindi sul suo giornale il primo appello per una adunata da tenersi il giorno 23 tra collaboratori, lettori, seguaci, combattenti, ex combattenti, cittadini e tutti coloro che si sentissero parte dei Fasci della “Nuova Italia”, sentenziando che da quell’incontro sarebbero usciti i Fasci di Combattimento. Così scrisse Mussolini sul suo giornale: “Noi vogliamo l’elevazione materiale e spirituale dei cittadini italiani (non soltanto di quelli che si chiamano proletari…) e la grandezza del nostro popolo nel mondo. Quanto ai mezzi, noi non abbiamo pregiudiziali: accettiamo quelli che si renderanno necessari: i legali e i cosiddetti illegali. Si apre nella storia un periodo che potrebbe dirsi della “politica” delle masse o dell’ipertrofia democratica. Non possiamo metterci di traverso a questo moto. Dobbiamo indirizzarlo verso la democrazia politica e verso la democrazia economica. La prima può ricondurre le masse verso lo Stato, la seconda può conciliare, sul terreno comune del maximum di produzione, capitale e lavoro. Da tutto questo travaglio usciranno nuovi valori e nuove gerarchie”.

Venne così dichiarato costituito il Fascio Milanese di Combattimento (i Fasci milanesi assunsero la guida del movimento, che mantenne fino al 1921). Tre dichiarazioni di Mussolini aprirono i lavori di questo nucleo politico portatore di innovazione nel modo di condurre la pratica politica. La prima rivolse un saluto ai caduti, ai mutilati e ai combattenti, dei quali si volevano sostenere le rivendicazioni d’ordine materiale e morale. Con la seconda si volle opporre apertamente all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia. La terza dichiarazione impegnò i
fascisti a sabotare con ogni mezzo le candidature dei neutralisti di tutti i partiti. Da queste premesse si può facilmente cogliere la sostanza tendenzialmente reazionaria che progressivamente si imporrà con sempre maggior vigore sull’operato del movimento.

Il mito dominante fu quello della necessità di una rivoluzione italiana che derivasse dall’unione delle forze sane della nazione le quali, al di sopra delle classi, delle scuole, dei partiti, sentissero il bisogno di stringersi nel nome sublime della patria. La rivoluzione italiana sarebbe stata la prosecuzione della guerra, volta alla creazione di uno Stato nuovo e libero dalle infezioni che gravavano sulla classe dirigente liberale. I Fasci Italiani di Combattimento si considerarono i precursori e gli anticipatori di un nuovo corso della storia, gli artefici della nuova Italia.

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