Il fallimento della rivoluzione di Napoli

Due furono le rivoluzioni che caratterizzarono la storia di Napoli nell’arco di all’incirca un ventennio: quella del 1799 e quella del 1820.

Con la Rivoluzione Francese del 14 luglio 1789 un’ondata di caos si propagò nell’Europa di quel tempo, poiché in gran parte del continente si accesero focolai rivoluzionari che tentarono di capovolgere il potere costituito e formare una nuova repubblica sulla base degli ideali promossi dalla Rivoluzione Francese: libertà, fratellanza, uguaglianza. La Rivoluzione Francese non riuscì tuttavia a dare il potere alla borghesia, vero motore della rivolta, con la conseguenza che la guerra civile fu risolta da un solo uomo che poi assunse il comando su tutta la Francia il 9 novembre 1799: Napoleone Bonaparte. Proprio quest’ultimo riportò importanti vittorie nell’Italia Settentrionale durante la campagna d’Italia, le quali portarono alla formazione nel 1797 di un certo numero Repubbliche, come ad esempio quella Piemontese, la Cisalpina, la Ligure, la Bolognese e così via. Queste erano dette “Repubbliche sorelle” della Francia rivoluzionaria, o “Repubbliche giacobine”; non avevano però un reale potere, essendo soggette all’esercito francese, che assorbiva terre e denaro da inviare nella loro nazione per risanarne i debiti.

Nel Regno di Napoli non vi furono sommosse contro il potere regio di Ferdinando IV, fino a quando, nell’ottobre del 1798, questo, con l’appoggio della marina inglese, entrò nei territori dello Stato Pontificio per restaurare il potere del Papa, cacciato via dai rivoluzionari che avevano creato la Repubblica Romana. Sconfitta, la famiglia reale napoletana si stabilì nell’altra capitale del Sud, Palermo, mentre il Vicario Generale Francesco Pignatelli fu costretto a firmare un armistizio coi francesi. A questa notizia i lazzari napoletani insorsero e ingaggiarono una lotta sanguinosissima con i giacobini, che culminò con la vittoria di questi ultimi, i quali il 23 gennaio del 1799 proclamarono la nascita della Repubblica Napoletana. Come le altre Repubbliche sorelle, anche quella Napoletana era soggetta alla Francia. Essa capitolò il giorno 8 luglio 1799, quando l’Esercito della Santa Fede, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo, con al seguito i lazzari, partì dalla Calabria e riuscì a riprendere Napoli dopo aver riconquistato la Lucania e la Puglia. La repressione borbonica fu efferata, con decine di condannati a morte per tradimento.

La rivoluzione del 1820 non fu provocata invece dall’intervento straniero, ma ebbe al contrario radice nella nazione stessa, pur essendo stata stimolata dall’esito positivo della rivolta spagnola aizzata dai militari, che costrinsero il re di Spagna Ferdinando VII a ripristinare la Costituzione revocata nel 1812. Cosa, questa, che contribuì notevolmente a esaltare gli ambienti carbonari e massonici. A Napoli, la cospirazione (la quale non si pose mai l’intento di destituire il re, ma solo di chiedere la Costituzione) prese subito vigore. Le potenze della Santa Alleanza, riunite in congresso a Congresso di Lubiana, su richiesta di re Ferdinando, decisero l’intervento armato (contando su circa 50.000 soldati austriaci) contro i rivoluzionari che nel Regno delle Due Sicilie avevano proclamato autonomamente la Costituzione. Coraggiosa fu la resistenza, ma il 7 marzo 1821 i costituzionalisti di Napoli, sebbene forti di 40.000 uomini tra regolari e volontari, furono sconfitti nella battaglia di Rieti-Antrodoco dalle truppe austriache. Il 24 marzo le truppe austriache entrarono a Napoli scortando re Ferdinando senza incontrare ulteriore resistenza, e chiusero il neonato Parlamento. Dopo un paio di mesi, re Ferdinando revocò la Costituzione e affidò al ministro di polizia, il principe di Canosa, il compito di catturare tutti coloro che erano sospettati di cospirazione.

Quali furono le cause del rapido crollo del moto rivoluzionario? La prima ragione va ricercata nell’ostilità del re, privato dalla Costituzione di molti suoi poteri. Il campo stesso degli insorti, inoltre, era minato nel profondo dal dissidio in atto tra la Carboneria, che aveva avviato la rivoluzione, e il gruppo murattiano, che si era associato ad essa solo in un secondo momento, assumendo a vittoria conseguita la direzione del governo. Questo dissidio rispecchiava i contrasti di classe tra la borghesia provinciale, rappresentata dalla Carboneria (possidenti, professionisti, preti, artigiani, ufficiali subalterni, sottufficiali) e i moderati murattiani, che erano un gruppo di funzionari, di alti ufficiali, di tecnici senza una vera radicalizzazione nel Paese, non adatti a dirigere una rivoluzione. Da ciò il disorientamento e la confusione politica di quelle stesse forze che avrebbero dovuto difendere il regime. Esse non furono in grado di elaborare una precisa linea politica e finirono per deludere tanto i contadini quanto i possidenti. In questo stato non fu possibile organizzare nessuna seria resistenza né civile né militare.

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