Donne e bambini nelle fabbriche

Abbiamo dato conto, nell’articolo precedente, del fenomeno che sorse nell’Inghilterra industriale in concomitanza dell’accrescersi dell’attività lavorativa svolta all’interno delle fabbriche, conosciuto come “luddismo”. Non era certamente solo il risentimento contro la macchina a portare l’operaio alla ribellione; vi erano altre componenti altrettanto rilevanti, come ad esempio lo scontento diffuso per i salari da fame, l’odio contro l’impersonalità e la disumanità dell’attività lavorativa durante il processo produttivo, tanto diversa da quella consueta della bottega artigiana o di quella a domicilio. L’avversione contro la fabbrica si accrebbe ulteriormente quando l’operaio fu costretto dal bisogno ad impiegarvi anche la moglie e i figli. Claude Fohlen, storica francese, sottolinea nel suo testo – “Che cos’è la rivoluzione industriale” – che il lavoro dei familiari non era propriamente una novità nel mondo preindustriale: del tutto nuove erano però l’estrema durezza di questo lavoro e la nuova condizione caratterizzata da una insostenibile promiscuità. Turni estenuanti e ricatti sessuali per le donne erano pratica ordinaria, deformazione e malattie per i bambini, le une e gli altri pagati con salari da fame: tale stato di degradazione apriva le porte alla prostituzione e alla violenza, come anche a numerose altre problematiche socialmente rilevanti.

Qui di seguito riporto uno stralcio del testo di Fohlen:
“Uno dei temi più importanti della storia del lavoro in questo periodo è l’impiego delle famiglie. Il lavoro in famiglia diventa un ponte tra le condizioni di impiego nell’antico universo del lavoro a domicilio e quello, nuovo, dell’officina. Avviene una sorta di naturale cooptazione: le donne e i bambini vengono spesso riuniti in unità familiari nella fabbrica o nella miniera. I bambini lavorano, come prima, con i genitori e scopano i detriti, legano i fili, aggiustano. Il lavoro in famiglia non è dunque una novità, per nulla. C’era sempre stato, ma senza il rigore e la disciplina che caratterizzano l’officina. La novità sta nella durata del lavoro che esige sforzi fisici e la promiscuità di grandi ateliers di uomini, donne e bambini di ogni età.
Popolare l’immagine che rappresenta bambini di meno di dieci anni che spingono carriole piene di carbone nelle miniere o si arrampicano nelle gallerie. Molto spesso infatti il proprietario delle miniere voleva trattare solo con il capofamiglia, che prendeva su di sé la responsabilità del lavoro e impiegava moglie e figli per estrarre il più possibile, dal momento che il salario era a pezzo, e non a tempo. Ne risultarono i più terribili eccessi poiché non era possibile dissociare il lavoro dell’uomo da quello degli altri membri della sua squadra. Nelle miniere inglesi del Nord, la giornata raggiunge di solito, nel 1830, le quindici-diciotto ore, e nella contea di Durham le quattordici. I bambini lavorano costantemente in fondo ai pozzi e si trovano quindi in terribili condizioni igieniche. Di conseguenza, malattie e deformazioni, come appare dal loro aspetto fisico. Ma non si poteva pensare allora di riservare una sorte diversa ai bambini.
Nell’industria del cotone la manodopera è formata nella maggior parte da donne e bambini. Secondo una statistica inglese del 1835 il 61% dei lavoratori in questa industria era costituito da donne e da bambini inferiori ai tredici anni. I salari delle donne erano, a parità di rendimento, sensibilmente inferiori a quelli degli uomini, il che significava un grosso vantaggio per il padrone. I bambini erano numerosi in questo tipo di industria, e fungevano soprattutto da ‘riallacciatori’, cioè si infilavano dietro le macchine o sotto gli ingranaggi per annodare i fili che si fossero rotti in fase di torsione. Era necessaria una certa agilità e difficilmente questo lavoro poteva essere fatto da altri. Ma anche qui era una questione di salari, poiché quelli dei bambini erano a loro volta inferiori anche a quelli delle donne”.

Precedente Gli operai contro le macchine: il luddismo Successivo La questione femminile