Dibattito sullo Stato e sull’economia (‘700)

Tentiamo adesso di approfondire con maggior chiarezza l’aspetto più propriamente politico degli sviluppi che contraddistinsero il Secolo dei Lumi, dando conto delle opinioni espresse dai grandi pensatori che resero celebre il Settecento.

Per ciò che concerne il dibattito relativo ai poteri dello Stato e le libertà del cittadino, precursore e simbolo del progresso idealistico in tale ambito fu senza ombra di dubbio Montesquieu, il quale si erse a fondatore della teoria politica della separazione dei poteri, tutt’ora perno di diverse organizzazioni politica specificatamente democratiche. La concezione della separazione dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario), formulata preliminarmente da J.Locke a salvaguardia della libertà del cittadino contro ogni abuso e prevaricazione dello Stato stesso, viene ripresa e approfondita da l’autore de L’esprit des lois, testo pubblicato nel 1748. Dopo aver esaminato in una serie di viaggi compiuti in vari Stati d’Europa i sistemi politici del suo tempo e dopo averli ricondotti a due, repubblicano (democratico o oligarchico) e monarchico (la cui degenerazione esemplare si rifà nel dispotismo), Montesquieu teorizza, sull’esempio dell’ordinamento inglese, uno Stato ideale in cui il potere sia diviso tra organi diversi al fine di garantire la libertà dell’individuo, giacché il potere limita il potere. Questa spartizione verrà ottenuta separando e distinguendo nettamente, con estrema chiarezza, fra loro il potere legislativo (Parlamento), quello esecutivo (Principe) e quello giudiziario (Tribunali), in modo che ne risulti una sorta di triarchia di organi dotati ciascuno di una funzione determinata e tale, comunque, da limitarsi e controllarsi vicendevolmente. Per questa opera Montesquieu è stato celebrato come il più grande teorico del reggimento politico liberale: certo è che a lui si ispirarono, dopo le vicende rivoluzionarie di fine secolo, gli uomini politici e i teorici dell’Ottocento costituzionale.

Il più famoso elogio alla democrazia diretta fu indubbiamente quello predicato da Rousseau nel suo “Il contratto sociale”. La volontaria partecipazione dei cittadini alle pubbliche assemblee è il sintomo, per lo scrittore ginevrino, di uno Stato ben costituito e veramente libero. Sotto un cattivo governo nessuno muove un passo per recarvisi, e tutti, al contrario, intenti solo alle proprie faccende, sono disposti a pagare di tasca loro, pur di evitare fastidi ed impegni. In questo caso lo Stato è già perduto. Nè si deve d’altra parte credere che un popolo sia libero per il fatto che ha propri rappresentanti in Parlamento, in quanto la sovranità non può in alcun modo esser rappresentata da delegati. Essa corrisponde alla volontà generale e questa non si rappresenta, si esercita: o è la volontà generale o è tutt’altra cosa, non ci può essere alcuna via di mezzo. La rappresentanza parlamentare è dunque, per Rousseau, una grossolana mistificazione, perché col sistema rappresentativo il popolo è libero e sovrano solo nel momento delle elezioni dei membri del Parlamento; ma non appena questi sono eletti, il popolo è subito in schiavitù, è una nullità. Con ciò Rousseau respinge il modello liberale inglese e l’idealizzazione che ne aveva fatto Montesquieu ne L’esprit des lois. E’ ben vero che il tipo di democrazia diretta che egli propone è realizzabile solo nei piccoli Cantoni della Svizzera, ai quali si ispira, mentre è inattuabile nei grandi paesi, per i quali si dovrà necessariamente ricorrere all’espediente dei rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione. Ma in questo caso i cittadini dovranno almeno conservare il diritto di destituirli e revocarli a loro piacimento. La polemica contro la rappresentanza parlamentare e, insieme, l’auspicio di una democrazia diretta, sarà ripresa nell’Ottocento dai movimenti libertari e anarchici e collegata all’istanza del decentramento e dell’autogoverno locale.

Passiamo ora ad analizzare l’accezione dello Stato e della Proprietà così come intesa dagli enciclopedisti, rappresentando L’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle Scienze, delle Arti e dei Mestieri la summa del pensiero del Settecento, un’opera di cultura che doveva divenire suscitatrice e moderatrice delle forze destinate ad operare nella storia. Lo Stato è definito l’unione di individui in un solo corpo, derivante dal concorso della volontà e della forza di ciascuno di essi. Questo concorso di volontà è la condizione perché lo Stato sia sano e felice, e in ciò è chiaramente riconoscibile la concezione contrattualistica dello Stato già precedentemente teorizzata da Locke, ma vi si aggiunge il concetto caro agli illuministi di felicità quale fine ultimo della società civile: il che implica il capovolgimento delle vecchie teorie del potere.
La voce Proprietà, dovuta principalmente alla penna di Diderot, chiarisce i limiti della delega conferita dagli uomini al sovrano. “Per quanto grande abbia potuto essere l’entusiasmo degli uomini per i sovrani ai quali si sottomettevano, essi non hanno mai ritenuto di dare loro un potere assoluto e illimitato su tutti i propri beni…”, giacché “uno dei principali obiettivi degli uomini nel costituire delle società civili è stato quello di assicurarsi il tranquillo possesso dei vantaggi che avevano acquisito o che avrebbero potuto acquisire, senza che alcuno potesse turbare il godimento dei loro beni”. Da ciò risulta evidente che l’Enciclopedia è espressione anche di quelle nuove forze economiche e sociali che, nella liquidazione delle arcaiche strutture feudali e nell’affermazione dell’allora progressivo e rivoluzionario diritto di proprietà, ponevano il presupposto della loro espansione.

Riprenderò quest’ultimo discorso nel mio prossimo articolo citando direttamente quanto scritto dagli enciclopedisti, in quanto ritengo che sia assolutamente da approfondire nel dettaglio.

Da menzionare in ultimo un evento legato alla diffusione del testo avanguardia dell’Illuminismo, qual è stato quello dell’ordinanza di censura contro i primi due volumi dell’opera promulgata dal re Luigi XV del 7 febbraio 1752, su sollecitazione dei suoi consiglieri, con la motivazione che in essi comparivano parecchie massime tendenti a distruggere l’autorità reale, a instaurare uno spirito di indipendenza e di rivolta oltreché ad elevare le fondamenta dell’errore. Nel 1757 si giunse anche a stabilire la pena di morte per gli autori di scritti che avessero offeso la religione. Dal 1775 al 1789 il Parlamento di Parigi condannò 75 scritti, giustificando il tutto con la preoccupazione derivante dalla ipotetica volontà degli scrittori di combattere, distruggere, sconvolgere tutto. Quanto all’Enciclopedia, la sua pubblicazione dovette essere sospesa, ma fu ripresa più tardi in grazia della protezione accordatale da Madame de Pompadour, la favorita di Luigi XV, e giunse in porto in modo semiclandestino nel 1766.

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