Dei delitti e delle pene

L’uso della tortura, ovunque abituale ancora nel Settecento, era visto dagli illuministi europei come una scandalosa sopravvivenza della passata barbarie che la diffusione dei lumi aveva il compito di cancellare. A Milano, la barbarie aveva il suo ben visibile monumento nella colonna infame e le Osservazioni sulla tortura (1777) di Pietro Verri iniziano appunto con la pubblicazione degli atti dell’ignominioso processo contro gli untori durante la peste del 1630. L’autore imputa l’accettazione diffusa della tortura all’ignoranza dei principi del diritto e all’illusione sulla sua efficacia, associandola alla superstiziosa credenza nelle streghe: “Anche i giudici, che condannavano ai roghi le streghe e i maghi, nel secolo passato, credevano di purgare la terra da’ più fieri nemici, eppure immolavano delle vittime al fanatismo e alla pazzia”.

Beccaria condanna l’uso della tortura con una serie di argomentazioni che si muovono su diversi livelli. La tortura, con la usa inutile crudeltà, offende la dignità inviolabile della persona ed è inconciliabile con i valori di una società civile. Sul piano del diritto, essa è incompatibile con la presunzione di innocenza che spetta a ogni imputato fino a quando un tribunale non ne provi la colpevolezza: “O il delitto è certo, o incerto: se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi tormentare un innocente, perché tale è, secondo le leggi, un uomo, i cui delitti non sono provati” (e, per la medesima ragione logica, l’applicazione e la durata della carcerazione preventiva devono essere rigorosamente regolate dalle leggi). Anche prescindendo dalla sua illegittimità, la tortura non è uno strumento attendibile per l’accertamento della verità, in quanto le confessioni che riesce a estorcere dipendono soltanto dalla maggiore o minore resistenza fisica e psichica dell’imputato, non dalla sua colpevolezza. Rimane inoltre aberrante, sul piano più strettamente giudiziario, considerare la confessione come indispensabile per provare la colpevolezza, in quanto sembra quasi un voler confondere tutti i rapporti, l’esigere che un uomo sia contemporaneamente accusatore ed accusato. Beccaria individua l’origine di questa urgenza della confessione nell’assimilazione religiosa del delitto e del peccato. La tortura stessa discende dall’arcaica commistione di barbarie religiosa e barbarie giuridica.

La netta distinzione tra crimine e peccato, tra oggettiva violazione delle leggi e intenzione soggettiva del criminale è alla base anche delle argomentazioni di Beccaria contro la pena di morte, che nascono da una concezione assolutamente laica, razionale e utilitaristica del diritto penale, unita a preoccupazioni umanitarie e a un sincero orrore per la violenza. La società si fonda sul patto originario con cui ciascun individuo ha rinunciato a una parte della propria libertà naturale, per ottenere in cambio protezione dei propri diritti e interessi; l’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia. In questa prospettiva contrattualistica utilitaristica, la pena di morte non ha alcuna legittimità giuridica, né alcuna giustificazione razionale.

L’autorità sovrana, le istituzioni in generale e la stessa giustizia penale hanno dunque una funzione limitata e strumentale, volta a garantire l’utilità comune, ovvero la massima felicità divisa nel maggior numero. La giustizia è soltanto il vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari e tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di loro natura. Il delitto non è assolutamente un peccato da dover espiare, bensì il danno arrecato alla collettività per aver violato scientemente il patto sociale sottoscritto; va punito dunque con una pena geometricamente proporzionale all’entità del danno e capace di dissuadere dal compiere altri delitti. Beccaria fa notare come la pena capitale, che suscita un’impressione quasi sempre violenta ma effimera, abbia minore potere di dissuasione del lavoro forzato a vita. Inoltre, l’effetto deterrente non proviene tanto dalla crudeltà, quanto dalla certezza della pena: “La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”.

Infine, mentre le leggi giuste e moderate possono educare gli uomini alla convivenza civile e quindi prevenire delitti, lo spettacolo della pena capitale contribuisce a imbarbarire gli animi e in ultima istanza toglie autorevolezza alle leggi. Sul piano delle riforme, la tortura venne abolita da Maria Teresa nel 1776, mentre il codice penale di Giuseppe II limitò a pochissimi casi la possibilità di comminare la pena di morte. In Toscana, il codice penale varato da Pietro Leopoldo nel 1786 fu il primo in Europa ad abolire la pena capitale (oltre alla tortura), stabilì pene moderate e riconobbe all’imputato il diritto di difesa.

Gli altri scritti di Beccaria e di altri illuministi italiani rivelano una chiara consapevolezza dell’origine sociale della criminalità, unita a una partecipazione umana e morale alle sofferenze dei più deboli.

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