Cosmopolitismo e Stato nazionale

Spunto interessante in relazione all’emergente cosmopolitismo (termine che racchiude al suo interno individui che si considerano dei ‘cittadini del mondo’ e che si diffuse in Europa soprattutto durante l’Illuminismo) ci viene offerto da Georges Lefebvre, storico francese che tutt’ora viene considerato come la massima autorità riguardo alla Rivoluzione francese, argomento che affrontò in diversi saggi e riviste specializzate.

Lefebvre giudica il cosmopolitismo – che pur costituisce un momento elevato nella storia delle speranze dell’umanità secondo concezione comune – con forte accentuazione critica: una finzione per l’aristocrazia e la ricca borghesia, una moda per gli ambienti intellettuali. Solo nelle menti degli economisti ispirati dal messaggio fisiocratico le prospettive cosmopolitiche si consolidano nel progetto d’un mercato mondiale unificato, aperto alla libera circolazione delle merci. Ben diversa importanza è attribuita dallo storico all’emergere degli Stati nazionali. Anche se nel Settecento questi sono ancora nascosti nell’embrione degli Stati dinastici, di essi si può cogliere la teoria nel pensiero di Rousseau e di Herder, mentre nelle parole di Lefebvre è già l’annuncio della fatale traiettoria che gli Stati nazionali compiranno nel corso dell’Ottocento.

Queste le considerazioni dello storico francese in merito a quanto stava accadendo in Europa alla fine del 1700:
Gli uomini colti eran convinti che si andasse elaborando una comunanza di civiltà; l’Europa, una per i popoli d’oltremare che essa aveva conquistati o minacciato di conquistare, sembrava avviarsi all’unità interna per opera della cultura. Se le rivalità politiche continuavano a lacerarla, si osservava tuttavia che il diritto pubblico tendeva ad attenuarle per mezzo del concetto di equilibrio; dal 1783, tale idea ispirava in Francia la politica del ministro Vergennes (Charles Gravier, conte di Vergennes, uomo politico francese, dal 1774 ministro degli Esteri), e Pitt (William Pitt, politico inglese, prima di schierarsi contro la Francia rivoluzionaria e napoleonica, promosse iniziative di pace e tentò di indirizzare il conservatorismo britannico verso programmi di tolleranza all’interno, di coesistenza all’estero) sembrava d’accordo con lui nella volontà di mantenere la pace. In confronto ai secoli precedenti, la stessa guerra si faceva più umana; gli eserciti, anziché vivere sul paese, eran riforniti dalle intendenze e gli ufficiali, diventati anch’essi sensibili e umanitari, risparmiavano le popolazioni civili. Agli occhi dei popoli, la politica degli Stati rimaneva monopolio dei principi; e i filosofi, inclinando nello stesso senso, ripudiavano l’egoismo nazionale. Gli scrittori tedeschi si lusingavano anzi che il loro paese fosse superiore agli altri in quanto, essendo privo di unità politica e militare, ignorava il patriottismo bellicoso.

Tutti s’illudevano. Il cosmopolitismo non era, di fatto, che una finzione per l’aristocrazia e la ricca borghesia, una moda per gli ambienti intellettuali. La circolazione restava, per molti aspetti, ancora troppo limitata perché i diversi gruppi europei cessassero di chiudersi nel loro particolarismo. Solo nella mente di alcuni finanzieri o di rari speculatori d’alto volo il cosmopolitismo s’inquadrava nella visione d’uno sviluppo della vita economica cui le frontiere non avrebbero potuto che essere di ostacolo: essi precorrevano i tempi, perché il capitalismo non tesseva ancora tra gli Stati una solidarietà sufficiente a che il mercantilismo, anche in Inghilterra, perdesse il proprio prestigio.

Noi vediamo piuttosto preannunziarsi la trasformazione degli Stati dinastici in comunità nazionali, cui l’organicismo di Herder come il volontarismo francese preparavano un’ideologia. Grazie all’insularità e alla limitata estensione del paese, questa trasformazione era già avvenuta in Inghilterra; essa era già molto progredita in Olanda e nei paesi scandinavi, in Svizzera, in Spagna e specialmente in Francia, dove, senza di essa, la Rivoluzione non sarebbe stata possibile. In Germania e in Italia, la rinascita di una letteratura indipendente dagl’influssi francesi preludeva al movimento politico unitario; la persistenza del sentimento nazionale in Ungheria, quella della lingua e delle religioni ortodosse degli Slavi minavano l’impero composito dagli Asburgo; la Polonia smembrata prendeva coscienza di se stessa e, nell’impero ottomano, i cristiani opponevano al Turco le loro comunità tenacemente autonome. Quel che impediva lo sviluppo delle nazionalità era il carattere dinastico dei loro governi, la persistenza della struttura medievale degli Stati. Questa struttura, nonostante i progressi del centralismo monarchico, manteneva in vita il particolarismo provinciale e municipale e, anzitutto, la gerarchia sociale fondata sul privilegio. La Rivoluzione francese doveva abbattere o intaccare tali ostacoli; ma, contrariamente alle sue speranze, il cosmopolitismo, invece di conquistare le masse popolari, doveva in pari tempo perder terreno.

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