Caporetto come nodo storico-politico

Giancarlo Lehner (Roma, 6 dicembre 1943), giornalista, scrittore e storico italiano, ha avanzato un interessante quesito rispetto a quanto accadde a Caporetto al Regio Esercito Italiano: fu quella una sconfitta militare o una sconfitta politica?

Lehner ha tentato di dare una risposta a tale domanda affinché questa risultasse quanto più univoca e priva di fraintendimenti all’interno del suo testo “Economia, politica e società nella prima guerra mondiale”. Le due tesi di cui prima furono avanzate e dibattute già all’indomani della rotta dell’esercito italiano nell’ottobre 1917 e successivamente riproposte dagli storici con diverse angolature critiche. Lehner conferma le gravi e indiscusse responsabilità dei comandi, senza tuttavia tacere l’estrema disorganizzazione e l’intima debolezza dell’esercito italiano, oltreché le enormi frodi delle forniture dovute alla collusione tra industriali e militari, sintomo di un male endemico che, manifestatosi drammaticamente a Caporetto, non si sarebbe però esaurito in quella circostanza. Ma quella non fu solamente una sconfitta militare, visto che fu accompagnata da una sorta di sciopero, dall’insubordinazione generalizzata, dalla diserzione in massa, da un diffuso spirito di rivolta. L’autore sottolinea proprio questo enorme potenziale di protesta che avrebbe potuto trasformarsi in un’impresa rivoluzionaria di grande e sconvolgente portata.

Qui di seguito uno stralcio del testo redatto da Lehner:

“Intorno alla rotta dell’esercito italiano nell’ottobre del 1917 è fiorita una vasta pubblicistica
ed una interminabile diatriba storiografica. Già in occasione di altre gravi sconfitte militari –
Lissa e Custoza nel 1866 – si erano accese polemiche e si era cercato un qualche capro
espiatorio per spiegare quegli eventi inattesi e dolorosi; questa volta, però, le dimensioni
del disastro furono tali da suscitare oltre lo sgomento anche tutta una serie di interrogativi
politici sulla saldezza e la coesione della giovane nazione italiana. La classe militare, dal
canto suo, addusse come causa primaria della sconfitta dapprima la viltà dei soldati e
subito dopo il disfattismo che dall’interno del paese aveva via via contagiato le truppe
combattenti: l’originario comunicato del Cadorna — poi ridimensionato dalla censura
governativa — parlava di «mancata resistenza di reparti […] vilmente ritiratisi senza
combattere o ignominiosamente arresisi al nemico». In seguito, lo stesso comandante in
capo andrà via via ripetendo la formula: «L’esercito cede, vinto, non dal nemico esterno,
ma dal nemico interno», con la quale si evitava a priori la tesi d’una «Caporetto» militare
riconducendo tutto il disastro ad una debolezza morale e politica dell’intera nazione. Che,
invece, vi fosse stata innanzi tutto una «Caporetto» militare fu avvertito subito dagli alleati
franco-inglesi, i quali comunicarono al governo Orlando la loro piena sfiducia nel Comando
italiano. Lloyd George, primo ministro inglese, richiese ufficialmente il siluramento di
Cadorna e del suo stato maggiore, responsabili supremi dello sbandamento delle truppe,
avvenuto «non per difetto di valore […] ma soltanto perché dal loro Comando furono poste
in condizioni insostenibili». Superato il trauma, anche in Italia si venne formando, specie
tra gli interventisti democratici, la convinzione che all’origine del disastro vi fossero stati dei
gravi errori militari e, infatti, alla fine della guerra fu creata una commissione d’inchiesta
per chiarire le responsabilità dei vari Cadorna, Porro, Capello, Badoglio, ecc. Le
conclusioni dell’inchiesta furono, però, ambigue perché da un lato si misero in luce alcuni
errori strategici, dall’altro non si volle lanciare un preciso e definitivo atto di accusa,
lasciando ampio spazio a nuove polemiche ed alla cristallizzazione delle due tesi della
«Caporetto» militare e di quella politica. Queste due interpretazioni vennero via via riprese
a seconda del clima politico e, piuttosto che rispondere ad esigenze di verità storiografica,
finirono per essere usate per avvalorare le diverse scelte ideologiche degli storiografi.

Sotto il fascismo, per esempio, parve più rispondente ai bisogni del regime addossare tutta
la responsabilità agli avversari politici – socialisti, cattolici e giolittiani – rivalutando, nel
contempo, l’operato dei comandi militari. Badoglio e Cadorna, sopra tutti gli altri, non
verranno più messi in discussione e, anzi, saranno promossi ad eroi nazionali per meriti
fascisti. Gli stessi storici fascisti, però, dalla Repubblica di Salò (1945-1945) sino ad oggi,
trascurando le loro precedenti conclusioni, hanno riscoperto gli errori dei generali, in
particolare di Badoglio, perché dopo la ventennale connivenza tra militari e fascisti, gli uni
si ritrovarono dalla parte degli anglo-americani e gli altri a fianco dei nazisti nelle tragiche
vicende della guerra di liberazione. D’altro canto, la storiografìa liberale e democratica,
specie dalla ripresa della vita parlamentare, ha insistito sulle responsabilità militari, con una documentazione sempre più ampia e schiacciante, ma ha finito col negare quasi del tutto il carattere politico ed il
potenziale rivoluzionario di Caporetto.

La «Caporetto» militare.
Nei giorni immediatamente precedenti l’attacco austro-tedesco, Luigi Cadorna aveva
voluto accertarsi dello stato «morale» delle truppe inviando nei vari reparti uomini di sua
fiducia. I rapporti che gli pervennero furono tutti improntati al massimo ottimismo.
Prendendo in considerazione soltanto le truppe che poi saranno le protagoniste della
disfatta, si resta allibiti – specie se si pensa alle parole di Cadorna sulla vigliaccheria dei
fanti di una settimana dopo – nell’apprendere che il generale Badoglio comunicò di essere
«soddisfatto dello stato morale delle truppe» e che «nei soldati l’idea che avrebbero avuto
di fronte i germanici, pareva avesse rianimato il loro spinto combattivo». Notizie dello
stesso tono pervennero al comando supremo anche dal generale Cavaciocchi e dagli altri
comandi. Questi grossolani errori di valutazione dipendevano da un lato dal desiderio dei
comandanti di presentare un quadro positivo dei loro reparti e dall’altro dalla superficialità
con la quale era stata portata a termine l’inchiesta sullo stato psicologico dei combattenti,
stante la diffusa opinione che l’autunno e l’inverno sarebbero trascorsi senza importanti
azioni belliche […]. Eppure erano giunte, sia al Cadorna che al presidente del Consiglio
V.E. Orlando, da parte del servizio informazioni e dai prigionieri austriaci, notizie sempre
più precise ed insistenti d’un prossimo attacco nemico sul fronte dell’Isonzo […]. Mentre i
nostri comandanti facevano a gara nella cattura immaginaria del nemico,gli austrogermanici
si apprestavano a sferrare l’attacco decisivo con l’impiego di nuovi e
sconvolgenti piani strategici. La tattica usata in questa occasione, infatti, rivoluzionava
completamente le regole di quella guerra di posizione che aveva sino ad allora
caratterizzato l’intero conflitto mondiale […]. La mancata resistenza, insomma, si dovette
in massima parte alla sorpresa ed alla relativa silenziosità dell’attacco che vide infatti un
largo uso di gas venefici piuttosto che di armi da fuoco. Gli austro-germanici incoraggiati
dal successo, superiore alle loro stesse aspettative, dilagarono sino a costringere l’intero
contingente italiano ad una ritirata che assunse presto l’aspetto di una fuga disordinata.
Dall’Ison-zo al Tagliamento e poi al Piave, per 140 km, l’esercito italiano continuò a
retrocedere lasciando nelle mani degli attaccanti 300.000 prigionieri 3.136 cannoni,
300.000 fucili ed un’enorme quantità di munizioni, viveri, ecc. I mortì ed i feriti furono
40.000, gli sbandati circa 350.000, i profughi 400.000 ed un’intera regione, il Friuli, era
perduta. Durante le varie fasi di questa tragica avanzata austro-tedesca, i comandi italiani
persero completamente la testa: in una relazione dell’ufficio storico dello stato maggiore,
mai resa di pubblico dominio per motivi di opportunità politica, si può leggerè: «Gli stessi
comandi si persero d’animo. Molti […] retrocedettero o per sfuggire alla prigionia o per
recarsi a conferire col comando superiore […]. Troppi comandanti si ritirarono prima delle
truppe». Già neli, 1920 un esperto di cose militari affermò senza tema di smentite che:
«Gli ufficiali superiori e i generali, i quali per primi conobbero la situazione, disponendo di
automobili, si misero senz’altro in salvamento» […].

La «Caporetto» politica
La sconfìtta militare era stata, però, effettivamente accompagnata da una sorta di
sciopero, dall’insubordinazione generalizzata, dalla diserzione in massa, da un diffuso
spirito di rivolta e di protesta. Il malcontento delle truppe, a stento soffocato dalle dure
repressioni si era già ampiamente manifestato in precedenti casi di ammutinamento di
diserzione, nelle uccisioni e nei ferimenti di ufficiali e soprattutto, di carabinieri (tale corpo,
svolgendo le funzioni di polizia militare, era particolarmente odiato dai soldati), nella varia
ed allucinante casistica delle lesioni volontarie. Caporetto diveniva per i fanti il momento
della vendetta: le truppe, dapprima si erano rifiutate di farsi nuovamente massacrare ed
avevano senz’altro rinunciato ad opporsi ad un nemico che sgusciava da ogni parte, poi, in
una confusa ritirata avevano cominciato ad inneggiare alla rivoluzione, al Papa, a Giolitti,
all’Austria stessa che con la sua vittoria avrebbe assicurato finalmente la fine della guerra.
Non v’era, in tutto ciò, un preciso obiettivo politico, ma un enorme potenziale di protesta
che avrebbe potuto spegnersi di lì a poco – come, infatti, avvenne – o trasformarsi in
un’impresa rivoluzionaria di grande e sconvolgente portata. La seconda soluzione avrebbe
avuto possibilità di successo nel caso che i dirigenti dei partiti proletari – specie del P.S.I. –
non avessero rinunciato da tempo ad instaurare degli stretti rapporti con la massa dei
combattenti e si fossero coraggiosamente messi a capo della rivolta. In realta, i socialisti,
massimalisti o riformi- sti che fossero non solo non compresero che probabilmente era
giunto il momento.- auspicato dal Lenin e dalla Sinistra rivoluzionaria europea -“dì
trasformare la guerra impcrialistica in lotta armata contro la. borghesia per la instaurazione
del socialismo, ma, sorpresi e sconvolti, si affrettarono a dissociarsi nettamente da ciò che
accadeva. Presi nel vortice d’una vicenda superiore alle loro forze, i riformisti Turati e
Treves, alla Camera e sui loro giornali, rivolsero appelli alla resistenza contro gli invasori e
la Confederazione del lavoro, anch’essa diretta dai riformisti, si fece garante del
patriottismo dei lavoratori («II proletariato farà tutto intero il suo dovere»). Per la parte
moderata del P.S.I., ormai, la formula del «nè aderire, nè sabotare» era pubblicamente
corretta in una sorta di «aderire e non sabotare» […]. A comprendere il potenziale
rivoluzionario di quell’enorme massa di fuggiaschi e di sbandati furono, per assurdo,
proprio i loro avversari di classe: la casta militare, gli interventisti, i conservatori, la
borghesia capitalistica, gli intellettuali. Mentre Cadorna puntava il dito contro la
vigliaccheria e l’insubordinazione dei fanti, alcuni ricchi borghesi, presi dal panico, si
allontanarono prudentemente dalle zone più calde, trasferendosi di preferenza sulla riviera
ligure, pronti ad ogni evenienza. […]. Passata la «grande paura», la classe dirigente
tornò a ridipingere il fante-contadino nella maniera tradizionale: buono, remissivo, soldato
ideale, religioso, conservatore, con quella personalità infantile ed ottusa, che lo rendeva
naturalmente sottomesso ed ubbidiente […]. Si passava così rapidamente alla seconda.
tesi: Caporetto era stata il frutto della campagna disfattista all’interno del paese. Si
citavano la nota papale auspicante la pace dell’agosto 1917 (in particolare la definizione
della guerra come «inutile strage») e le parole pronunciate nel luglio in parlamento dal
Treves («II prossimo inverno non più in trincea»), come esempi lampanti di tale sottile ed
insinuante disfattismo, tanto più efficace vista la fragilità della psiche contadina,
unanimemente teorizzata dagli scienziati borghesi […]. È evidente, infatti, che col
trascorrere dei giorni quell’esplosione di rivolta e il confuso ma potente desiderio di
riscatto, privi di una qualsiasi conduzione politica, si andassero via.via esaurendo sino a
far spegnere del tutto il loro potenziale rivoluzionario. Ed infatti quella massa di sbandati,
esaltati sulle prime per il loro primo grande atto d’insubordinazione e di riscatto dopo due
anni di sofferenze e di umiliazioni, senza una parola d’ordine od una guida politica, privi di
contatti con l’interno del paese, da cui, del resto, non provenivano ne aiuti,né
incoraggiamenti, assaporando, sopra ogni altra cosa, il piacere della liberazione
dall’incubo della guerra, sostituirono alla primitiva carica di odio e di rabbia contro i
borghesi imboscati, i capi militari e i politici, i responsabili della guerra l’ansia del rapido
ritorno a casa. Ma il potere militare era ormai in grado di riprendere il controllo della
situazione: non ci sarebbe stata né la pace, né il ritorno a casa per i fanti di Caporetto, ma
nuove repressioni – le operazioni di sgombero erano state affidate i generale Andrea
Oraziani che nello spazio di pochi giorni ordinò 34 esecuzioni sommarie, fra cui quella di
un soldato colpevole di fumare il sigaro in sua presenza! – e la prosecuzione della guerra
dopo la ritirata fino al Piave. – Dopo più di mezzo secolo di sbrigative negazioni o di
interessati silenzi, il problema di Caporetto come occasione rivoluzionaria mancata è stato
riproposto, dapprima dal Valiani («II solo istante in cui, durante la guerra, un moto
rivoluzionario sarebbe stato obiettivamente possibile in Italia») e poi, in un clima di sempre
nuovo interesse per la storia della guerra 1915-18, in tutta una serie di saggi e di articoli –
vedi soprattutto gli stimolanti lavori dell’Isnenghi -, sulla scia dei quali il nodo storico
politico di Caporetto, al di là degli schemi tradizionali, si ripresenta oggi aperto a nuove
interpretazioni e discussioni.

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