ARMIR: l’Offensiva Ostrogorzk-Rossoš

12/13 Gennaio 1943, Seconda guerra mondiale: sul Fronte del Don scatta l’attacco sovietico denominato Offensiva Ostrogorzk-Rossoš, il quale provocò la ritirata del Corpo d’Armata Alpino dell’ARMIR.

Con Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ si è soliti indicare la terza fase dell’offensiva invernale condotta dall’Armata Rossa che ebbe luogo tra il 1942 e il 1943, dopo l’Operazione Urano (la grande offensiva di accerchiamento sferrata per intrappolare le forze della Wehrmacht impegnate nella regione di Stalingrado) e l’Operazione Piccolo Saturno
(il cui successo decretò il definitivo fallimento dei piani di salvataggio tedeschi della 6ª Armata intrappolata a Stalingrado e la conseguente disfatta del Terzo Reich nel settore meridionale del Fronte Orientale), nel quadro delle campagne militari sul Fronte Orientale della Seconda guerra mondiale.

Sferrata a partire dal 12 gennaio 1943 nel settore dell’alto corso del Don, l’Offensiva Ostrogožsk-Rossoš’ in pochi giorni provocò la sconfitta del contingente ungherese alleato dei tedeschi e coinvolse nella catastrofe militare anche alcuni reparti della Wehrmacht e il Corpo d’Armata Alpino, ultima formazione ancora efficiente dell’ARMIR dopo la solenne disfatta subita nel dicembre 1942 dagli altri corpi d’armata schierati più a Sud. Dopo questa nuova sconfitta, il fronte meridionale tedesco venne completamente scompaginato, aprendo all’avanzata sovietica le vie di accesso alle città strategiche di Char’kov e Kursk, e scoprendo la posizione difensiva di Voronež (difesa dalla 2ª Armata tedesca), che sarebbe stata investita nella successiva offensiva sovietica (Offensiva Voronež-Kastornoe).

L’Operazione Piccolo Saturno, menzionata in precedenza, non toccò il Corpo Alpino ma ne scoprì il fianco destro, poiché le due armate sovietiche proseguirono verso Sud. Il successo ottenuto permise allo Stavka (Comandante in capo delle Forze Armate dell’Unione Sovietica) di continuare le operazioni nel gennaio 1943, estendendo poco a poco l’offensiva fino a includere i Gruppi d’armate Centro, Don e A: questa nuova serie di manovre iniziò con attacchi mirati alle unità ungheresi e tedesche poste a difesa del corso medio del Don e a quelle tedesco-rumene che cercavano ostinatamente di tenere Rostov, attraverso la quale doveva ripiegare dal Caucaso il Gruppo d’Armate A. L’obiettivo sovietico era quello di sbaragliare le unità nemiche e assumere il controllo della linea ferroviaria Svoboda-Kantemirovka, quindi avanzare verso Ovest fino alla linea Urazovo-Alekseevka-Rep’ëvka.

Fra il 13 e il 27 gennaio la 40ª Armata del Fronte di Voronež e la 6ª e la 3ª Armata corazzata del Fronte Sud-Occidentale condussero per l’appunto l’Offensiva Ostrogorzk-Rossoš, provocando la distruzione della 2ª Armata ungherese distribuita alla sinistra del Corpo Alpino. Già il primo giorno le forze magiare cedettero di schianto, e il 14 gennaio formazioni sovietiche sfondarono le posizioni del XXIV. Panzerkorps che si trovava più a Nord e il 15 raggiunsero Rossoš’, sede del comando del Corpo alpino: inizialmente respinti, i soldati sovietici ripresero la cittadina il giorno seguente.

Nei primi giorni dell’offensiva il Corpo alpino mantenne le posizioni, rinforzato dalla 156ª Divisione “Vicenza”, e la 3ª Divisione “Julia” riuscì, assieme ad alcuni reparti eterogenei del XXIV Corpo corazzato, a tenere una linea difensiva improvvisata a sud-ovest del fiume Kalitva; a metà mese, però, le divisioni sovietiche investirono anche gli alpini. Gli stati maggiori italo-tedeschi non si resero subito conto della portata dello sfondamento e tardarono a intervenire, cosicché solo la sera del 17 fu ordinato alle unità di ritirarsi, quando ormai le divisioni “Tridentina”, “Julia”, “Cuneense” e “Vicenza”, assieme alla 385ª e 387ª Divisioni di fanteria (appartenenti al XXIV. Panzerkorps), al gruppo Waffen-SS “Fegelein” e alla modesta 27ª Divisione panzer, erano già circondate.

Circa 70000 uomini del Corpo Alpino, assieme a 10000 tedeschi e a un cospicuo contingente ungherese, si riversarono verso Ovest, nel disperato tentativo di rompere l’accerchiamento sovietico e ricongiungersi al lontano fronte amico. Le armate sovietiche avevano ormai sopravanzato i reparti dell’Asse di circa 100 chilometri e le loro formazioni corazzate, nonostante si preoccupassero soprattutto di avanzare, si insinuavano continuamente con fulminee scorrerie tra le colonne in rotta, rendendo ancor più disperata la fuga attraverso la steppa innevata, a temperature comprese tra i -20 e i -40 °C.

L’ultima fase della tragica ritirata fu caratterizzata da disperazione, caos e cedimento morale. Gravi incidenti scoppiarono tra le truppe tedesche e quelle italiane, molto spesso a causa della volontà di usufruire dei pochissimi mezzi motorizzati disponibili. La stremata colonna guidata dalla “Tridentina”, comunque, non era ancora uscita dalla sacca, e nella giornata del 25 dovette dapprima fronteggiare un attacco di partigiani e forze regolari russe a Nikitowka che venne respinto dal 5º battaglione alpini e dalle residue artiglierie tedesche e italiane, e successivamente, alle prime luci del 26 gennaio, dovette respingere duri attacchi nei pressi di Arnatauwo con i battaglioni “Tirano” e “Val Camonica”.

Superata quest’ultima sacca, tutta la “Tridentina” si schierò per sfondare l’ultimo sbarramento sovietico a Nikolaevka: il 26 gennaio 1943 gli alpini e i rimanenti cannoni d’assalto tedeschi si scagliarono con le ultime energie contro l’ostacolo e, dopo un sanguinoso scontro, riuscirono finalmente a rompere l’accerchiamento e a guadagnare la via verso Šebekino. La loro marcia però non finì qui: il comando di divisione fece ricostituire rapidamente i reparti e ordinò la ripresa della marcia all’alba del 27, che si concluse solamente solo il 31 gennaio, quando gli alpini raggiunsero Triskoje non senza ulteriori perdite e grandi difficoltà. Sorte peggiore toccò alle due divisioni “Cuneense”, “Vicenza” e ai sopravvissuti della “Julia”, che furono definitivamente intrappolate e costrette alla resa il 28 gennaio a Valujki dai reparti del 7º Corpo di Cavalleria sovietico, giunto in quella località fin dal 19, a cui non seppero e non poterono opporre una efficace resistenza.

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